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Tortoise – The Catastrophist

2016 - Thrill Jockey
post-rock

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Tracklist

1.The Catastrophist
2.Ox Duke
3.Rock On
4.Gopher Island
5.Shake Hands With Danger
6.The Clearing Fills
7.Gesceap
8.Hot Coffee
9.Yonder Blue
10.Tesseract
11.At Odds With Logic

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Chi dava i Tortoise per morti si dovrà ricredere, e anche in fretta. Ah, parlo di me. Perché ad una certa ho temuto il peggio. Tutto il trambusto che stanno facendo i fanboys/girls dei Tool di tutto il mondo (di internet, poiché temo che oggi un mondo al di fuori dei social non ci sia) in attesa di un nuovo disco, dentro di me, nella solitudine del mio internet interiore (eh?), lo stavo replicando a mia volta in attesa del ritorno della combriccola di John McEntire e, sarò sincero, avevo perso le speranze. E invece eccoci qua, pronti ad immergerci in quello che, non esagero nel dir così, potrebbe essere un nuovo inizio per la band di Chicago, ed è un inizio che guarda gli anni ’70 dritto negli occhi e lo fa senza temere revisionismi (o revivalismi) di sorta.

“The Catastrophist” è un disco che porta aria nuova nella formula tortoisiana e che lascia quasi del tutto indietro i pruriti jazzistici (quantomeno quelli free) a cui ci avevano abituati da “Standards” in poi (non è una lamentela, quella era roba davvero potente). A far da padrone di casa è un senso del groove e dell’idea ritmica più presente e incisiva, se prima era nella latenza e nell’immobilismo che i post-rockers dell’Illinois sguazzavano, qui è il movimento a dar senso al tutto.
Ma dicevamo degli anni ’70? Non è una sensazione bensì una dichiarazione d’intenti che prende forma nella cover di “Rock On” di David Essex (ve lo devo dire io che è la migliore rivisitazione che troverete in giro? Mica vorrete dirmi che preferite quella dei Blondie o dei Def Leppard, su) cantata, per l’occasione, dal chitarrista degli U.S. Maple Todd Rittmann, e se non è un dream team questo non so come altro potremmo definirlo. C’è tutta un’anima kraut in questo disco e si palesa in svariate occasioni e forme, ad esempio nell’acido ascendente di “Gesceap”, che fonde un basso sferragliante a synth all’LSD, synthetismi che tornano spesso come nell’allucinante title-track, dallo strepitoso incipit happy-prog (neologismi a caso), o ancora nella devastazione elettronica di “Ox Duke” che si apre a soluzioni di morbido pop seventies (tutto torna) che starebbe comodo comodo su un film di Truffaut (vi sfido a dire il contrario) così come nella calma in bianco e nero di “Tesseract” (che invece piazzo su un polizziottesco a piacimento). Stramazzo al suolo quando parte “Hot Coffee” che pare prendere i Parliament (o gli Sly and the Family Stone) per immergerli in un disastro elettrico senza pari, e la stessa cosa accade con “Gopher Island” figlia bastarda di Devo e Zappa mentre “Yonder Blue” è un viaggio caldo e vellutato negli anni ’60 (i suoni di questo pezzo signori..i suoni..), con la voce di Georgia Hubley degli Yo La Tengo a guidarci. L’oscurità dei precedenti lavori non è scomparsa ma ha finito col diluirsi in un mare altro, e lo dimostra la conclusiva “At Odds With Logic” le cui textures chitarristiche si affacciano ad un baratro vacuo che trova sbocco nel ritmo e in una soluzione diversa dell’essere “post”, e se del jazz c’è ancora sentore è più Eric Dolphy che Ornette Coleman, chi ha orecchie per intendere intenda.

Ebbene siamo alle soglie del capolavoro, e, come già accaduto con “Rave Tapes” dei Mogwai, ad un sonoro e sincero calcio in culo alle “tradizioni” di genere, all’infischiarsene di come reagirà il pubblico post aprendo più possibilità che mai verso un’idea diversa di rock, come accadde negli anni ’90. Ben venga il futuro.

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