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Back In Time

Back In Time: IRON MAIDEN – Seventh Son Of A Seventh Son (1988)

Iron Maiden

L’attaccamento ai primi album non è solo il riflesso di una vicenda storica individuabile oggettivamente, ma è un luogo della mente, in cui è costretto a tornare chiunque si trovi a ripercorrere l’evoluzione artistica di una band. La teoria che si è fatta paradigma nel caso degli Ulver precede di molto quel “Marriage of Heaven and Hell” ed è forse inscindibile dal concetto di “metal”, considerato il carico di identificazione che questo genere musicale suscita, specialmente in chi vi si appassioni durante l’adolescenza: il legame costruito con una band, frequentemente coltivato nel campo della prima parte della discografia della stessa, porta allora cambiamento e tradimento a confinare, quando non a sovrapporsi.

Dieci anni fa non avrei avuto dubbi a rispondere “Killers” se mi avessero chiesto quale fosse il disco migliore degli Iron Maiden, non mi sarei vergognato di affermare che quanto prodotto con Paul Di’Anno alla voce fosse impareggiabile e avrei liquidato tutto ciò che è venuto dopo “Live After Death” come istinto di sopravvivenza, per dirla con un eufemismo che mal cela la scarsa considerazione in cui tenevo quanto realizzato dalla band dopo il 1985. Per fortuna dopo i 15 anni arrivano i 25 e, passata l’illusione di poter confinare il metal tra le passioni giovanili, arriva anche il momento di fare i conti con tutte le proprie valutazioni, con tutti quei giudizi un tempo insindacabili ed ora così fragili. Oggi penso che i Maiden, affacciandosi alla seconda metà degli anni Ottanta dall’alto del trono dell’heavy metal, conquistato dopo un lustro stellare per intensità e qualità, non solo non avrebbero potuto fare di meglio, ma abbiano realizzato proprio in quel periodo il loro disco migliore.

Tornati esausti dal mastodontico “World Slavery Tour”, Steve Harris e compagni decisero di concedersi una pausa, fatto inedito per una band che fino a quel momento aveva macinato traguardi con una voracità impressionante: quei pochi mesi di inattività furono sufficienti a ridefinire assetti ed equilibri di quella che era una macchina da guerra ormai ben rodata. “Somewhere in Time”, il primo disco a non uscire l’anno successivo rispetto al suo predecessore, segna infatti l’inizio della sperimentazione con sintetizzatori per chitarra e basso, e vede emergere, a livello compositivo, la sensibilità maggiormente rock del chitarrista Adrian Smith, qui autore di diversi brani, tra cui i due singoli Wasted Years e Stranger in a Strange Land. La tracklist inoltre acquista toni maggiormente progressive, con composizioni mediamente più lunghe e articolate.

Iron Maiden

Uscito l’11 aprile del 1988, “Seventh Son of a Seventh Son”, settimo album della carriera della band, perfeziona e mette a sistema tutte le novità introdotte con il disco precedente. L’idea su cui si basa l’intera opera venne a Steve Harris dalla lettura del romanzo “Seventh son” di Orson Scott Card, incentrato su questa figura dotata di poteri paranormali, capace di vedere il futuro: raggiunto al telefono, Dickinson si mostrò subito entusiasta della proposta e si mise a lavorare a partire da questo spunto. Il cantante, che si era sentito messo da parte dopo che i suoi contributi compositivi per “Somewhere in Time” erano stati respinti, ritrovò così nuovo entusiasmo. Oltre al rinnovato apporto di Dickinson, “Seventh Son of a Seventh Son”, vede diversi brani scritti grazie allo sforzo congiunto di più membri della band, frutto del tempo speso a lavorare insieme attorno al nodo tematico e narrativo da cui erano partiti: si tratta infatti del primo concept album della band, ma la coerenza e la coesione interne alla tracklist trascendono l’aspetto lirico, rendendo la sequenza di brani un flusso di rara intensità.

Dopo una breve introduzione per chitarra acustica e voce, frammento che viene ripreso alla fine del disco, è un riff di sintetizzatore ad aprire Moonchild, brano arrembante che aggiorna la formula sottesa ai brani più diretti dei Maiden, impreziosendone la trama senza minarne minimamente l’impatto. Infinite Dreams si costruisce invece attorno al delicato intreccio delle chitarre, supportate anche in questo caso dai sintetizzatori, che confermano le potenzialità offerte arricchendo il ritornello epico e cadenzato, a mio modo di vedere uno dei migliori mai scritti dalla band. Il brano acquista poi ritmo senza perdere nulla in termini di melodia, come testimoniato dall’intermezzo vocale che anticipa gli assoli di chitarra. Il rallentamento che porta alla ripresa del ritornello, infine, conferisce ulteriore pathos a quest’ultimo, rendendolo davvero irresistibile.

Can I Play with Madness? avrebbe dovuto, nelle intenzioni dell’autore Adrian Smith, essere una ballata ma il contributo di Dickinson rese il brano un perfetto singolo pop, dotandolo di un ritornello incredibilmente efficace, mentre la mano di Harris riuscì ad inserire nella struttura complessiva alcuni cambi di tempo ed un breve passaggio strumentale, rendendolo, nonostante l’orecchiabilità, un pezzo perfettamente riconducibile alla discografia degli Iron Maiden. The Evil that Men Do, che insieme alla traccia precedente e a The Clairvoyant si rivelerà uno dei cardini dei concerti della band per gli anni a venire, restituisce, in apertura, protagonismo alla chitarra, per poi svilupparsi con i toni epici e drammatici, seppur squisitamente melodici, dell’intero album.

La title-track individua il suo antecedente in The Rime of the Ancient Mariner, di cui riprende, oltre all’elevato minutaggio, anche l’impronta epica e progressiva, qui rafforzata dall’utilizzo dei sintetizzatori, che anche in questo brano dimostrano la consistenza del proprio apporto, costituendo l’elemento collante tra i vari cambi di tempo e di atmosfera. The Propecy riparte da un arpeggio di chitarra avvolto dal suono dei sintetizzatori per poi lasciare a Dickinson il compito di guidare l’incedere epico e cadenzato della composizione. La già citata The Clairvoyant è introdotta dal basso di Steve Harris, che sostiene le chitarre nel loro disegno melodico prima dell’irrompere della preziosa strofa, in cui i sintetizzatori intersecano l’arpeggio delle sei corde, di nuovo protagoniste prima del ritornello. Quest’ultimo si sviluppa su una ritmica ficcante senza perdere di intensità, rendendo il risultato complessivo ancora una volta epico e perfetto per le arene sempre più grandi con cui la band ambiva a confrontarsi. Only the Good Die Young, posta in chiusura, è una cavalcata tradizionalmente Maiden, formula alla quale i sintetizzatori donano nuova freschezza senza, come detto in precedenza, privare il brano della sua carica ma, anzi, migliorandone l’efficacia.

Una cosa infatti è da chiarire, per onestà con me stesso e come possibile contributo ai sedicenni di domani: l’ampliamento della strumentazione utilizzata a partire da “Somewhere in Time” e perfezionata su questo disco non è inscrivibile nella tendenza, comune a buona parte della musica di quel momento storico, metal compreso, di aggrapparsi ai sintetizzatori per scalare le classifiche di vendita, ma è riconducibile forse, più propriamente, alla passione della band, e in particolare di Steve Harris, per il progressive e, più in generale, alla voglia di musicisti ormai affermati di trovare nuovi stimoli e soluzioni fuori dal perimetro di un genere che avevano in larga parte contribuito a definire.

Iron Maiden

Dopo “Seventh Son of a Seventh Son” la band andò incontro al suo decennio più buio: nell’epica che ho cercato di costruire in questa sede, le difficoltà che seguirono quello che ho individuato come il disco migliore dell’intera produzione degli Iron Maiden potrebbero essere risemantizzate come inevitabile conseguenza dello sforzo sovrumano messo in campo dall’eroe per superare i propri limiti. In realtà credo semplicemente che le anime divergenti della band, tenute insieme fino a “Powerslave” dalla stessa fame di affermazione e, per i due dischi successivi, unite dall’equilibrio eccedente che si produsse su “Somewhere in Time” e si perfezionò con “Seventh Son of a Seventh Son”, semplicemente non trovarono più ragioni sufficienti per continuare a convivere e decisero di assecondare le proprie esigenze e inclinazioni individuali.

Il primo ad allontanarsi fu Adrian Smith, intenzionato a seguire la sua attitudine alla composizione di brani da classifica, elemento che manca quasi quanto la sua intesa con l’inossidabile Dave Murray sul successivo “No Prayer for the Dying”, disco che segnalò una preoccupante involuzione nel suono della band, confermata poi da “Fear of the Dark”, al quale fece seguito l’abbandono dell’iconico frontman Bruce Dickinson, desideroso di tentare la carriera solista. Anche per questo ha senso riascoltare oggi “Seventh Son of a Seventh Son”, perché la fase attuale della carriera degli Iron Maiden, propiziata dal rientro di due elementi così importanti della formazione storica e avviata da “Brave New World”, può essere letta in continuità con l’esperienza di quel disco, di cui le nuove uscite hanno ripreso la tendenza progressiva di alcuni brani, la volontà di sperimentare soluzioni nuove ma soprattutto la capacità di mantenere in equilibrio la sensibilità e la spinta creativa di cinque (nel frattempo divenuti sei con l’innesto del chitarrista Janick Gers) artisti dalle vedute talora anche molto diverse.

Quest’estate gli Iron Maiden saranno di nuovo in giro con un tour celebrativo del loro glorioso passato, una scaletta incentrata particolarmente sui dischi da “Piece of Mind” al qui celebrato “Seventh Son of a Seventh Son”. Ho avuto la fortuna di vederli 10 anni fa in un tour analogo e consiglio a chiunque di non perderseli, soprattutto a chi dovesse pensare che quello non sia stato il miglior periodo della band.

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