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Back In Time

Back In Time: CELTIC FROST – Monotheist (2006)

Celtic Frost

Quanti album post-reunion hanno effettivamente aggiunto qualcosa di significativo alla storia di una band? Pochi, se non pochissimi. Di solito questi tanto attesi ritorni rappresentano meri pretesti per partire alla volta di lunghe tournée autocelebrative dove regalare ai fan il brivido di riascoltare i vecchi classici dal vivo. Nelle scalette c’è sempre spazio per un paio di brani nuovi di zecca, tanto per far vedere che qualche interesse nei confronti dell’ultimo arrivato in famiglia c’è. L’accoglienza del pubblico è pressoché ogni volta la stessa: indifferenza totale. Eppure, tra le innumerevoli risurrezioni e operazioni nostalgia che ci siamo sorbiti negli ultimi anni, non sono mancate sporadiche belle sorprese. E, nel caso di “Monotheist” dei Celtic Frost, forse anche qualcosa di più.

La band elvetica iniziò a lavorarci su nel 2002, a un decennio circa dal primo scioglimento. Al fianco di Thomas Gabriel Fischer (voce, chitarra) e Martin Eric Ain (basso, voce), uno stuolo di collaboratori di livello: il produttore Peter Tägtren, il batterista Franco Sesa, il chitarrista Erol Unala, le cantanti Lisa Middelhauve (ex Xandria) e Simone Vollenweider. Aggiungeteci le comparsate di un paio di nomi di peso della scena estrema europea (Satyr dei Satyricon e Ravn dei 1349) e avrete tra le mani gli ingredienti ideali per l’ennesimo tuffo nel passato autoindulgente e autocitazionista, privo di rischi e scossoni.

Quando si è al cospetto di due personalità complesse, geniali e scontrose quali quelle di Fischer e Ain, tuttavia, le certezze latitano. E così quello che sulla carta poteva sembrare un semplice tentativo di rilancio di un marchio storico dell’avant-garde metal – di uno dei padri nobili del filone black – si trasformò in qualcosa di assolutamente diverso: un requiem per il sogno di rinascita dei Celtic Frost.

Celtic Frost

La tensione opprimente che attraversa i quasi settanta minuti di “Monotheist” è reale: è la stessa che, ad appena due anni dalla sua uscita, sarebbe sfociata nello scontro insanabile tra le due anime della band. Una fine triste e indecorosa, consumata in un vortice di odio e apatia che quasi convinse uno stremato Tom Fischer ad abbandonare definitivamente le scene, prima di tornare velocemente sui suoi passi e dar vita ai Triptykon. E proprio con questi ultimi il chitarrista perennemente incappucciato ha proseguito il percorso di inaudita violenza sonora inaugurato dal canto del cigno della sua vecchia creatura: un’evoluzione ultra-moderna del thrash e del black delle origini che, dopo un’immersione in uno “stagno di fuoco e zolfo”, si trasforma in un oscuro e inscalfibile monolite doom, venato di infernali atmosfere gotiche, sinfoniche, noise e industrial.

Tutto questo inutile giro di parole e definizioni per dire che “Monotheist” è uno degli album più pesanti, marci e cattivi della storia recente del metal: qui non ci sono luci, ma solo montagne di riff taglienti e lente marce funebri che di tanto in tanto lasciano spazio a qualche bella sfuriata in vecchio stile (Progeny, Domain Of Decay). Riprendendo il verso iniziale di A Dying God Coming Into Human Flesh, nel mondo senza religione dei Celtic Frost “tutto è freddo e gelo”: le urla disumane di Ain in Totengott e i rantoli rabbiosi di Fischer in Ground sono attacchi diretti a un dio debole e moribondo. Un semplice demiurgo che, dall’alto del suo “trono di polvere”, si palesa per quel che è: “nient’altro che una bugia”.

Una divinità allo sbaraglio che alla fine dei giochi, nei terrificanti quanto meravigliosi quattordici minuti di Synagoga Satanae, viene ucciso definitivamente, tra preghiere blasfeme e citazioni dell’Apocalisse di Giovanni. Nessuna salvezza nel nuovo regno, ma un unico, perentorio ordine: Bow down before thy lord below.

All’epoca dell’uscita “Monotheist” spaccò la critica tra sperticati lodatori e accesi detrattori, alcuni dei quali arrivarono addirittura a definirlo un malriuscito esperimento nu metal messo su con il preciso scopo di conquistare schiere di nuovi fan, troppo giovani per ricordare i fasti degli anni ‘80. Nulla di più lontano dalla realtà: pur condividendo ben poco con i pionieristici “Morbid Tales” e “To Mega Therion”, l’addio alle scene dei Celtic Frost rappresenta ancora oggi un coraggioso passo in avanti verso un’idea di musica estrema complessa, contaminata e incredibilmente affascinante, e il suo peso sull’evoluzione del genere è innegabile: provate a chiedere ad Asphyx e Blut Aus Nord.

“Monotheist” è uno spaventoso testamento artistico e spirituale che ha chiuso in maniera brillante la travagliatissima carriera di questi giganti svizzeri che, dopo la prematura scomparsa di Martin Eric Ain lo scorso 21 ottobre, possiamo dire con certezza non rivedremo mai più insieme.

Celtic Frost

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