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“Paranoid”, il requiem di un mondo sull’orlo della fine

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Stando alle parole del chitarrista Tony Iommi, ai Black Sabbath furono sufficienti all’incirca tre giorni per registrare le otto tracce che compongono “Paranoid”, il loro secondo disco. Il 16 giugno 1970, pochi mesi dopo aver dato alle stampe un album di debutto il cui successo commerciale lasciò di stucco i criticoni di Rolling Stone e The Village Voice, i quattro ventenni di Birmingham tornarono ai Regent Sound Studios di Londra per accontentare le richieste di un manipolo di dirigenti discografici assetati di denaro.

I piani alti della Vertigo Records volevano battere il ferro finché era caldo, e alla band tutto sommato non dispiaceva affatto l’idea di mettere qualche soldo in più in tasca. D’altronde, nessuno di loro aveva mai navigato nell’oro: nel 1969 non era difficile pizzicare Ozzy Osbourne andare in giro scalzo per le strade di Aston perché troppo povero per potersi permettere un paio di scarpe. A rinfoltire il portafoglio di questo ex ladruncolo dal senso dell’umorismo particolarmente macabro (quando staccava il turno al mattatoio di Digbeth correva al pub per far scivolare occhi di mucca sgraffignati sul posto di lavoro nei drink degli sfortunati clienti) ci pensò quell’immenso genio dei riff che è Tony Iommi.

Nel 1968 una pressa da officina lo privò di due falangi della mano destra ma non di un talento a dir poco prodigioso: quanti grandi artisti possono vantarsi di aver scritto un classico del rock in appena venti minuti? Iommi ci mise tanto per comporre la musica di Paranoid, la hit che trascinò l’album dallo stesso titolo ai vertici delle classifiche britanniche. Il testo, come quasi tutti quelli del periodo classico della band, porta la firma del bassista Geezer Butler. Narra la storia di un uomo depresso che, oltre a essere sull’orlo della pazzia, fa fatica a nascondere qualche fosco pensiero suicida. Quasi cinquant’anni dopo la sua uscita, qualche capoccione del marketing alla Nissan avrebbe individuato in questa canzone la colonna sonora ideale per lo spot di un inutilmente ingombrante SUV per famiglie: è proprio vero che viviamo in un’epoca straordinaria!

Non che il periodo a cavallo tra la fine degli anni ‘60 e i primi ‘70 fosse tutto rose e fiori: quando “Paranoid” arrivò sugli scaffali dei negozi di dischi, il sogno di un mondo migliore coltivato fino a poco tempo prima dalla coloratissima generazione hippie era già morto e sepolto. Volendo fare i maligni, possiamo considerare questi quaranta minuti di nerissimo proto-metal una sorta di ultimo chiodo sulla bara del Flower Power. C’è una frase emblematica tratta da un’intervista di Ozzy Osbourne a Esquire che, almeno secondo il mio modestissimo parere, rende in maniera chiarissima il Black Sabbath-pensiero dell’era “Paranoid”.

Il riferimento a uno degli inni hippie per antonomasia, San Francisco (Be Sure To Wear Flowers In Your Hair) di Scott McKenzie, è palese: In quel periodo il motto era “se vai a San Francisco, assicurati di mettere dei fiori tra i capelli”. Io pensavo: ma dove cazzo è San Francisco? E gli unici fiori che avevo mai visto ad Aston erano quelli sulle tombe al cimitero.

Paranoid” non è altro che un lugubre manifesto politico, un tardivo requiem per lo spirito di una Summer of Love già da un pezzo sul viale del tramonto. Il tema magico/esoterico del suo monumentale predecessore viene recuperato solo per rendere le parole di Butler ancor più incisive. I signori della guerra che mandano migliaia di giovani a morire in Vietnam vengono dipinti come stregoni che pianificano campagne di distruzione nel corso di segretissime messe nere (War Pigs).

Gli skinhead che tormentavano Ozzy Osbourne e i suoi poveri compagni di sventura (coinvolti in una violentissima zuffa appena quarantotto ore prima di entrare in studio per le registrazioni dell’album!) si trasformano – con lo zampino di qualche allucinogeno di troppo – in fatine che indossano stivali e picchiano come i fabbri delle acciaierie di Birmingham (Fairies Wear Boots).

I rumori industriali della città delle West Midlands dove i quattro componenti dei Black Sabbath sono nati e cresciuti forgiano il suono metallico e oscuro di “Paranoid”. La cassa martellante di Bill Ward e la voce robotica di Ozzy all’inizio di Iron Man suonano come un triste presagio: il futuro appartiene alle macchine. L’uomo di acciaio che, senza riuscirci, prova ad avvisare la civiltà dell’apocalisse ormai imminente, cede a quella stessa furia omicida dalla quale aveva cercato disperatamente di mettere al riparo i suoi (ex) simili. La forza elettromagnetica che trasforma questo viaggiatore del tempo in un androide cieco e spietato attraversa anche la musica dei Black Sabbath, che in svariati frangenti di “Paranoid” si apre a fulminanti cavalcate elettriche in cui è l’improvvisazione a farla da padrone.

Il rhythm and blues delle origini si inscurisce, si appesantisce e sembra seguire un’evoluzione simile a quella che interessò negli stessi anni – ma dall’altra parte dell’oceano – il funk. Lo so, può sembrare una stupidaggine, ma se andate ad ascoltare i giri di basso di Electric Funeral e (soprattutto) Hand Of Doom forse comprenderete quello che voglio dire.

L’heavy metal primordiale e viscerale di Iommi, Geezer, Osbourne e Ward pulsa come il cuore di un gigante morente. Nessuna occasione per ballare, certo; eppure in queste tracce c’è un senso del ritmo – chiamatelo groove, se volete – che si insinua facilmente nelle orecchie dell’ascoltatore,  muovendosi con la grazia di un serpente velenoso pronto ad azzannarci i timpani da un momento all’altro.

E anche dietro la delicatezza di una meravigliosa ballata dalle tinte jazz qual è Planet Caravan, un omaggio chitarristico da parte di Tony Iommi al maestro Django Reinhardt, si ha l’impressione di una minaccia sempre imminente. Ma forse sono io che semplicemente ho ascoltato troppe volte i Black Sabbath e sono diventato paranoico.

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