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The Black Queen – Infinite Games

2018 - Federal Prisoner
synth pop

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Tracklist

1. Even Still I Want To
2. Thrown Into The Dark
3. No Accusations
4. Your Move
5. Lies About You
6. Impossible Condition
7. Spatial Boundaries
8. 100 To Zero
9. Porcelain Veins
10. One Edge Of Two


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Sembra di camminare in uno sterminato palazzo di marmo scuro, tra muri e pavimenti freddi come il ghiaccio mentre si ascolta “Infinite Games”, il secondo album dei The Black Queen. Se si osserva fuori dalle finestre si potranno osservare cieli neri come la pece con pochi raggi di un sole stanco e spento a filtrare tra le spesse nubi, una cortina di ferro che riporta alla mente decadi lontane.

Greg Puciato, Joshua Eustis e Steven Alexander si riconfermano sapienti architetti di un suono che trova le sue radici negli ormai lontanissimi anni ’80, un trend sempre più vivo tra coloro che si muovono nelle terre della musica alternativa e non, ma che non tutti sanno trattare doverosamente. Il trio invece sembra essere a suo agio come non mai e già lo aveva dimostrato con forza sul precedente “Fever Daydream”, un album diventato una piccola crisalide di culto tra gli amanti del genere. Qui la materia modellata è ancor più profondamente radicata laddove sono nati ma spinge una spanna avanti un sound che sembra vivere una nuova giovinezza.

Il discorso iniziato due anni fa è cresciuto, ma sviluppandosi è divenuto più scarno e minimale investendo la propria corazza glitch di un’oscurità rinnovata, come uno specchio sbeccato ed infranto che mostra lati di sé deformati dalla distruzione dell’unità, spezzata in tante piccole parti, fino a formare una nuova consapevolezza in chi osserva. “Insidioso” lo definiscono i suoi creatori, ed è così, ma terribilmente pop e fruibile, come tutti i migliori dischi usciti tra l’80 e l’89. Come se ogni singolo brano dovesse essere storia a se stante, legato agli altri indissolubilmente benché indipendente. I suoni che troverete qui racchiusi vi faranno sciogliere a più riprese se avete divorato “Black Celebration” dei Depeche Mode. La magia creata da Andy Clarke e Martin Gore qui rinasce come una Fenice metallica e scintillante, ne esalta le forme e spende tutta la propria ammirazione fino a tramutarla in qualcos’altro, qualcosa di fine e delizioso nel suo essere un semplice rimando.

L’insana bellezza di quelle atmosfere risplende su brani come Spatial Boundaries, arpeggiata synth e scudisciata con una chitarra sotterranea di cui ti accorgi solo una volta finito il brano, o ancora Thrown Into The Dark, il cui ritornello si incolla dritto tra le pareti del cervello in loop sempiterno. Gli arpeggiatori striscianti tinti del grigio di un orizzonte apocalittico si snodano sinuosi su 100 To Zero, che com’è arrivata se ne va in un soffio di vento freddo da inverno infernale. Il lavoro certosino di Eustis ed Alexander è la base d’appoggio perfetta per la vocalità cristallina dell’ex Dillinger Escape Plan che dà prova di essere ulteriormente migliorato e che incatena parole delicate ed intimamente luciferine.

L’acustica Porcelain Veins porta un nome perfetto per le flebili chitarre di carta velina che la costituiscono, toccante ballad proveniente da galassie sconosciute. No Accusastions invece quell’insidia di cui sopra grazie ai bassi che si muovono serpentini tra le melodie sintetiche. Si mostrano invece rivolti verso una sorta di altare su cui vengono sacrificati Nine Inch Nails ed hip hop post-litteram (alla maniera in cui lo ha sempre trattato Justin Timberlake) sulla conclusiva One Edge Or Two che come un fiore delicato ma dai colori pulsanti si schiude sprigionando tutto il suo afrore mortifero.

E possiamo dirlo: se questo disco fosse uscito trent’anni fa oggi sarebbe annoverato tra i migliori album synth pop di sempre con un posto d’onore tra Soft Cell, Depeche Mode e Duran Duran. Ma non è il caso di starci a pensare su più di troppo.

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