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Morso – Lo Zen E L’Arte Del Rigetto

2019 - Dischi Bervisti / Cave Canem
post core / noise rock / hardcore punk

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Tracklist

1. Liberaci dal male
2. Nessuno e centomila
3. Pieno di istanti
4. Non si muore ogni dicembre
5. Sempre meglio di niente
6. Incline
7. Glamour suicide
8. Il fine giustifica i mezzi
9. Cmc
10. Ex
11. Sognavo di essere Bukowski


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Erano anni che aspettavo una band come i Morso, sin da quando nella prima metà degli anni ’00 i Dillinger Escape Plan irruppero nella mia vita portandosi dietro un sacco di altre band, sonorità e voglia di gridare, ancora e ancora. Ho dovuto aspettare e nell’attesa mi sono sollazzato con realtà come Psychofagist, Incoming Cerebral Overdrive e nella compagine più noise rock di One Dimensional Man, Lucertulas, Putiferio, Fluxus. Sono passati un sacco di anni eppure eccoli, i Morso, si palesano come l’epifania di cui avevo bisogno. L’avvento di una sonorità che in Italia nessuno aveva capito a fondo, che in pochi avevano avuto le palle di portare alle estreme conseguenze, o forse nessuno.

Che poi quando metti su “Lo Zen e l’arte del rigetto” ci rimani di stucco, ti sembra di sentire tritati assieme tutti quei nomi qui sopra con l’aggiunta di una spolverata immonda dei Sottopressione di “Così distante”; eppure non c’è nulla che lo renda derivativo, in alcun maledetto modo. Suona come se guardassi il mondo appeso fuori da un treno lanciato a velocità supersonica su una rotaia sconnessa, con le scintille che zampillando crudeli ti feriscono volto ed occhi, come un mostro sanguinario che con un morso – eccoci – ti strappa repentinamente le viscere e in un attimo tutto è finito e tu ti svegli in una pozza di piscio, tremante di paura, boccheggiando per catturare la vita che se ne va. Perché è nel delirio che si muovono i Morso, un memento morbi, un virus letale, una mattonata dritta ai denti davanti che arriva così, di punto in bianco.

Nervosi, irritati da una realtà che schiaccia in una chiave articolare cuore e cervello i quattro lasciano che la repulsione e il rigetto si facciano strada nella ferocia, come un solco che attraversa la spina dorsale fendendola per lungo. Non ci sono stratificazioni ma un’unica, delirante tempesta di coltelli. I tempi sono sghembi e nevrastenici e sono quelli di un hardcore punk che riflette il malanimo di un mondo piagato da riverberi sociali vacui (Nessuno e centomila e i suoi “like a cagnette”, la blasfema preghiera “sei tu che nella merda dici AMEN” di Liberaci dal male). Il cardine è la voce di Guido, capace di prendere il giusto slancio e passare incanalando l’hc fino che spinge sul limitare delle parole imbevendosi di rabbia esacerbante in un feroce montare di follia totale per poi sterzare e distendersi assieme agli strumenti in distese melodiche alienanti (in Pieno di istanti intona con delicata lucidità “ma non è forse vero che i momenti più appaganti sono negli abbandoni, in cui ti tiri fuori per comprendere / la gioia è una postura l’assumi se sei pronto anche a perdere” e che chiosa in “un algoritmo infernale / e non mi illuderà).

Il noise rock affilato come una katana scintillante spesso e volentieri colpisce al basso ventre (la splendida Incline in cui è nuovamente la voce a lasciare basiti, Ex invece uccide col passo felpato di un mammuth e richiama dolore e schiavitù come stelle polari), con le chitarre a tirare funamboliche sfuriate cucite addosso a una sezione ritmica arcigna e compatta in un contingente post-core che ti scanna vivo (le accelerazioni malate di Sempre meglio di niente e Non si muore ogni dicembre è figlia dell’unione di Botch e Retox).

Come una biliosa e collerica orchestra di tumulti si fanno beffe di tutto e tutti rinnovando l’idea di un genere che lascia i fasti in un’epoca ormai passata, uscendo allo scoperto come una belva affamata che si nutre dell’ossigeno di chi ascolta, lasciandolo annaspare tra le raffiche di un vento maligno di cui liberarsi non sarà facile. D’altronde non è che si voglia proprio farlo, dopotutto.

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