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Back In Time

Back In Time: MARLENE KUNTZ – Ho Ucciso Paranoia (1999)

Marlene Kuntz

Correva l’anno 1999. Siamo agli sgoccioli di quella tanto amata decade dei Novanta, divenuta proverbiale nei tempi a venire, non solo perché riassuntiva delle bellezze artistiche ad essa antecedenti, ma anche per la preziosità degli artisti e delle band che ne hanno fatto letteralmente meraviglia. I protagonisti dei benamati ninenties non hanno neanche bisogno di presentazioni, parliamo di presenze dotate di un’aura tanto raggiante da divenire idoli indiscussi in diverse parti del mondo nel giro di pochissimo tempo e che hanno saputo splendere di luce propria in modo invidiabile, al punto da rendere la propria carriera piena di spunti per le generazioni postume. I Nirvana sono l’esempio forse più lampante, avendo cominciato a godere di una notorietà che ha scavalcato il preconcetto da sempre esistente di musica facilmente sputtanabile/musica ostica e per adolescenti depressi e irrequieti con “Nevermind” (realizzato nel 1991; il resto, se pur per un brevissimo lasso di tempo, è stato tutto in ascesa fino alla morte di Kurt Cobain). Non meno rilevanti sono stati i Soundgarden di Chris Cornell, dei quali resterà probabilmente impressa per sempre nelle testoline dei giovani cresciuti in quegli anni Black Hole Sun come resta impresso l’inno nazionale (anche se sembra doveroso menzionare “Superunknown” nella sua interezza più che un brano soltanto). Per quanto sembri ieri, era il 1994. Per non parlare di “Mellon Collie And The Infinite Sadness” e “Siamese Dream” degli Smashing Pumpkins di Billy Corgan (rispettivamente del 1993 e del 1995) che sono diventati manifesti indiscussi. Questi, chiaramente, sono i nomi più noti, quelli un po’ più alla portata di tutti, ma sarebbero da menzionare doverosamente gli Shellac, i Sonic Youth, i Melvins, gli Slint,i Pixies e chi più ne ha ne metta.    

È da ammettere che la situazione musicale italiana dell’epoca era prolifica come in pochi altri casi. C’era aria di cambiamento, si faceva tesoro di tutto quello che nell’arco di quella decade tanto rilevante era stato seminato con efficacia e stile volgendo l’attenzione, tra alti e bassi, verso orizzonti nuovi. È implicito che, così dicendo, si allude non solo a ciò che è stato prodotto al di fuori dell’Italia (e quindi il materiale di cui sopra), ma anche all’interno dei confini nazionali. Gli anni Novanta anche qui da noi, come è noto, sono stati estremamente fruttuosi. Il 1999 è l’anno della pubblicazione di “Non è Per Sempre” degli Afterhours, di “Microchip Emozionale” dei Subsonica, dell’esordio dei paladini della nuova scena, i Verdena, e quindi di alcuni step importantissimi per la musica cosiddetta alternative. Fra le varie band di spicco dell’epoca, però, ce n’è una che si fa strada da circa sei anni in un modo leggermente diverso rispetto alle band in voga a quel tempo, una che risulta disinteressata al mainstream nella sua totalità e che reinterpreta, creandone una combo interessantissima, le lezioni dei progetti di Lindo Ferretti, dei già citati Sonic Youth e del genio di Nick Cave: i Marlene Kuntz.

Il 1999 per la band di Cuneo è decisivo: si proviene dall’elegantissima ferocia dei primi due dischi, “Catartica” e “Il Vile” (rispettivamente 1994 e 1996, e da un Ep dell’anno prima, “Come Di Sdegno“); si deve quindi capire qual è la strada da seguire. È meglio incedere nei sentieri impervi e tortuosi del noise o mettersi in gioco affrontando nuove sfide? “Ho Ucciso Paranoia” rappresenta la risposta più razionale e democratica a questa domanda. Terzo e ultimo capitolo (per i Marlene) edito dal Consorzio Suonatori Indipendenti, il disco presenta una tracklist meno omogenea in confronto ai primi lavori: i tredici brani in questione sono dal gusto vario, sono un ensemble di diamanti preziosi nella forma e nella sostanza. Si parte dalla graffiante ouverture L’odio migliore (ricca di piacevolissime e conturbanti chitarre fischianti che si intersecano in gran stile, così come la tradizione del noise vuole) giungendo, zigzagando, ad altre sponde della stessa isola incantata (toccando quindi Le Putte, brano eclettico con al centro la figura dello scrittore che “verga e ingiura” giocando con le 21 lettere dell’alfabeto, o In delirio, in cui la penna di Godano narra le traversie del viaggio che porta al soliloquio e alla solitudine).

Da qui si passa all’altro lato della medaglia di “Ho Ucciso Paranoia“, a quello intimo, cauto (come nel caso di Una canzone arresa) e dalla romanticheria mozzafiato, nonostante l’amore non venga mai neanche nominato (come per Infinità). E forse proprio per questo affascinante. Una sorta di pop (lo dico pur rendendomi conto della blasfemia di cui mi avvalgo, è giusto per distinguerlo da quello che le menti irrefrenabili dei Kuntz hanno sin ad allora dato vita) che sul momento ha fatto storcere il naso a quelli che, imperterriti, volevano continuare a godere di quell’immagine che i quattro ragazzi piemontesi si erano costruiti sino a quel momento ma che in realtà ha fatto gioire gli animi dei loro fan. Un vero sostenitore dei Marlene Kuntz in questa fase della loro carriera ha avuto modo, più di prima, di afferrare la completezza di questa band che realmente ha lasciato il segno.    

Ricorre quest’anno il ventennale della pubblicazione di questo capolavoro senza precedenti, un disco forse tra i meno influenti dei Marlene Kuntz, ma senz’altro uno dei più rilevanti. Per svariati motivi. Per suoni, testi, idee, collaborazioni importanti. È importante come lo è “Catartica“, e come lo è “Il Vile“. Ogni disco, ma credo sia così per ogni band, rappresenta un tassello che si va ad unire all’immensa voragine affascinante che è la musica, un passo indubbiamente piccolo ma che può creare varchi grandissimi da cui è difficile uscire. E proprio per questo, come sono stati importanti i Soundgarden, fondamentali i Nirvana e via dicendo, nel loro piccolo anche i Marlene Kuntz hanno un posto di tutto merito. Hanno saputo fare breccia nel cuore di tanti e non è poco. 

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