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“The Slim Shady LP”, la maschera grottesca del rap game

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Come ho già avuto modo di raccontare altrove, l’affetto che nutro nei confronti di Slim Shady è indissolubilmente legato a un rituale infantile: le mattine a casa da scuola passate a fare la spola tra i cartoni animati e MTV. Non è poi così strano un artista tanto controverso e discusso, potesse attirare l’attenzione di un bambino in età da scuola elementare: i video di My Name Is e Guilty Conscience hanno sicuramente del cartoonesco. Così come l’idea di un alter ego che non lesina sui colpi bassi, vendicando i torti subiti da Marshall Mathers per mano di famigliari meschini ed ex compagni di scuola prepotenti, è decisamente affine alle gesta campeggianti sulle pagine di tanti albi a fumetti.

Come il biondino del Michigan sia finito nella scuderia di Dr. Dre e quali vicende turbolente ne abbiano segnato il vissuto è arcinoto. Così come la sua assoluta maestria al microfono, in grado di assicurargli un posto tra le fila dei migliori mc di tutti i tempi. Con la sovraesposizione mediatica, oltre agli incassi da capogiro, non si fecero attendere nemmeno le polemiche, inevitabili per una figura sempre in bilico tra serio e faceto, anche davanti ad argomenti scottanti. Omofobia, razzismo, istigazione alla violenza sulle donne e all’abuso di sostanze stupefacenti. Sarebbe ingenuo non constatare come tali accuse abbiano catalizzato l’attenzione della gente, non scalfendo la simpatia nei suoi confronti ma anzi, agendo da cassa di risonanza.

Non deve essere stato facile per un ambiente storicamente e fieramente nero, prendere atto dell’avvento di un viso pallido in grado non solo di competere ma addirittura prevalere sul suo stesso campo di gioco. Beastie Boys e House Of Pain erano sicuramente gruppi interessanti ma avevano obiettivi ben diversi dal conseguimento del titolo di “best rapper alive”. Poi vabeh, nei meandri più oscuri della Grande Mela si aggirava già un certo El-P (ma quello era veramente un altro pianeta). Inoltre l’immaginario veicolato dai suoi testi, era piuttosto lontano da quello cui il genere aveva abituato. Si prenda ad esempio My Fault, resoconto di un rendez vous poco romantico finito in maniera tragicomica, complice una manciata di funghetti allucinogeni. Come spesso accade, guardando il dito si rischia di perdere la luna.

Nel pezzo sopracitato, così come anche e forse soprattutto in Rock Bottom e If I Had, spietate nella loro eviscerazione di una vita di ristrettezze e privazioni, emerge un elemento troppo spesso sottaciuto della prima fase della poetica eminemiana: la condizione della fascia di popolazione più disagiata del Midwest statunitense. Povera, scarsamente o affatto istruita, ammassata nei campi trailer (dei veri e propri container per esseri umani), cadendo spesso vittima di depressione, alcolismo, violenza domestica, gioco d’azzardo e tossicodipendenza. I cosiddetti “white trash”, una delle aberrazioni più evidenti del famoso “sogno americano”.

Eccezionale il modo in cui realtà e finzione vengono mescolate: in ’97 Bonnie & Clyde, Marshall narra di una gita al lago con la figlia, il cui scopo principale è sbarazzarsi del cadavere della moglie fedifraga nascosto nel bagagliaio dell’auto. Il contrasto tra la dolcezza dei sentimenti paterni verso la bambina e il livore verso l’ex compagna è straordinario, tratteggiando un pezzo che riesce ad essere allo stesso tempo delicato e brutale. Altra prova da applausi a sipario aperto risulta poi Brain Damage, rievocazione di alcuni atti di bullismo subiti durante gli anni delle medie. Qui la fantasia dell’autore si scatena: al pestaggio partecipano anche il preside e un’insegnante e una volta rientrato a casa, finisce per prenderle anche dalla madre. Giustamente dopo aver riso per quasi dieci minuti, un po’ d’amarezza non guasta.

Role Model e la censuratissima Just Don’t Give A Fuck, costituiscono probabilmente la migliore summa del personaggio: sboccato, politicamente scorretto e totalmente insofferente nei confronti del perbenismo. In effetti risulta difficile dargli torto: se ascoltando i suoi pezzi i ragazzini si sentono in qualche modo incoraggiati ad imitarlo, probabilmente il problema è loro e non suo. Era soprattutto questo Eminem agli esordi: un enorme talento narrativo. Talvolta fine a sé stesso, atto solo a intrattenere chi è all’ascolto, spremendo fino all’ultima goccia una vena creativa apparentemente inesauribile. In altri casi in grado di colpire proprio laddove la società americana, più impegnata a giustificare le proprie contraddizioni che a tentare di rimediarvi, cela nervi scoperti e facilità all’indignazione.

Una volta fatta irruzione nel mondo delle superstar, Em ha praticamente passato il resto della propria carriera a riflettere sulle conseguenze che un successo di tale portata comporta. La maschera grottesca con cui un pubblico spesso più affamato di gossip che di musica continua a identificarlo però, si è rivelata ben presto un’arma a doppio taglio. Se da un lato infatti l’ha reso un nome iconico e perennemente chiacchierato, dall’altro ne ha vanificato (quando non reso patetico) ogni tentativo di rinnovamento. Va comunque riconosciuto che anche se con risultati altalenanti, un ventennio ai vertici del rap game è una vera e propria eternità.

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