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“The War Of Art”: un caos vischioso fatto di sirene urlanti

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La storia degli American Head Charge è costellata di sventure, tragedie, passi falsi e stranezze. Giusto per farvi un’idea: a darle inizio, nell’ormai lontanissimo 1996, fu l’incontro tra il cantante Cameron Heacock (o Martin Cock, se preferite ricordarlo con il sobrio nome d’arte utilizzato agli esordi) e il bassista Chad Hanks in un centro di recupero per tossicodipendenti e alcolisti a Minneapolis. Un avvio di carriera già di per sé non proprio promettente, quindi.

Non che il proseguimento sia andato tanto meglio, in fin dei conti: in un’America in pieno fermento post-11 settembre, davvero poche persone sembrarono apprezzare un gruppo abituato a dar fuoco alla bandiera nazionale sul palco. O a sparare colpi di fucile in aria tra una canzone e l’altra, come avvenne nel corso di un’infuocata esibizione all’Ozzfest. Una cosa è sicura: che vi piacciano o meno, questi sette scalmanati del nord-ovest statunitense sapevano mettere in piedi uno spettacolo davvero memorabile.

Il problema di fondo è che ignoravano quando darci un taglio. Sotto altre forme, gli eccessi che caratterizzavano i loro concerti se li trascinavano ovunque, anche dietro le quinte. Lo sa bene Heacock, cacciato dalla band nel 2009 perché letteralmente devastato dal consumo di droghe. Lo sa ancora meglio il povero chitarrista Bryan Ottoson, morto a soli ventisette anni nel 2005 a causa di un’overdose. La fortissima tendenza all’autodistruzione gli avrà pure impedito di andare oltre i proverbiali quindici minuti di celebrità, ma in compenso ci ha regalato uno dei lavori più interessanti e particolari di tutta l’epoca nu metal: “The War Of Art”.

Registrato in una vecchia villa di Los Angeles appartenuta all’illusionista Harry Houdini e prodotto nientepopodimeno che da Rick Rubin, il secondo album realizzato dagli American Head Charge ha il suono fragoroso di una meteora che si schianta sulla terra. Pur non essendo stato né il primo, né l’ultimo disco a loro nome – tra il 2005 e il 2016 ne avrebbero fatti uscire altri due, passati quasi completamente inosservati – è come fosse entrambi.

Nelle sedici tracce al suo interno l’impellenza creativa di una band pronta a presentarsi al grande pubblico si fonde con una natura incendiaria degna di chi non ha più nulla da perdere: biglietto da visita e canto del cigno allo stesso tempo, quindi. Il gruppo si appropria del linguaggio crossover per poi distruggerlo lentamente, senza risparmiare su nulla per quanto riguarda cinismo, cattiveria e violenza: bordate industrial quali Pushing The Envelope, Never Get Caught, Self e soprattutto la rovente Americunt Evolving Into Useless Psychic Garbage rappresentano ancora oggi quanto di più brutale ci sia mai stato offerto nel corso della controversa stagione metallara di inizio millennio.

In un caos vischioso fatto di sirene urlanti, batterie martellanti, rifferama selvaggio e continui richiami alle lezioni apprese dai numi tutelari (Marilyn Manson, Ministry e Fear Factory su tutti), questi sette cavalieri dell’Apocalisse nu metal non offrono sollievo neanche quando decidono di abbassare i toni. Gli elementi pop e i ritornelli ultra-orecchiabili dei singoli Just So You Know e All Wrapped Up tendono a perdersi un po’ in una cornice sonora tanto pesante e complessa. Per non parlare poi del pianoforte infilato tra le note di Effigy 23 e Song For The Suspect, in grado da solo di infondere un ulteriore senso di inquietudine a due tra i brani più cupi e minacciosi degli American Head Charge. Marci, cafoni e spietati fino alla fine, mentre corrono a perdifiato verso l’oblio.

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