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“Silver Side Up”, la formula magica dei Nickelback

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11 settembre 2001: una giornata infausta per New York, gli Stati Uniti e il mondo intero. A polverizzarsi non furono solo le Torri Gemelle, ma anche quei sogni di pace e benessere che avevano segnato l’inizio del terzo millennio. Scampati incolumi dal pericolo del Millennium Bug, ci ritrovammo con i piedi affondati in un incubo ben peggiore. Un incubo dal quale non sembrava poterci essere via d’uscita, se non una lunga ed estenuante guerra contro un nemico difficile da individuare.

Nelle stesse ore in cui l’occidente piangeva le quasi tremila vittime dell’odio jihadista, tuttavia, c’era chi festeggiava. No, non mi riferisco a quei gruppi di palestinesi giubilanti i cui filmati vennero quasi immediatamente trasmessi da talk show e telegiornali, già pronti a cavalcare la crescente ondata d’islamofobia che si sarebbe poi diffusa a macchia d’olio, provocando ulteriori danni e disastri. Sto parlando di una band formata da quattro giovani canadesi di belle speranze, ambiziosi e disposti a scendere a patti con il diavolo pur di raggiungere i vertici delle classifiche. Sto parlando dei Nickelback, il cui “Silver Side Up” arrivò sugli scaffali dei negozi di dischi proprio nelle ore in cui si stava consumando una delle peggiori tragedie della storia moderna.

A costo di far passare Chad Kroeger per una specie di Nostradamus, si potrebbe interpretare quella lacrima di metallo liquido che scivola lungo il viso stampato in copertina come un piccolo segno premonitore delle incombenti sofferenze planetarie. Così però si rischierebbe di attribuire un significato troppo importante a un album che, con tutto il rispetto, di profondo ha poco o nulla.

I Nickelback non meritano affatto l’odio che gli viene tributato dal giorno in cui hanno fatto la loro comparsa nell’heavy rotation di MTV. I Nickelback hanno talento, non producono pessima musica e non hanno distrutto né il grunge, né tanto meno il post-grunge, che nel 2001 se la passava comunque già abbastanza male. La colpa, o meglio dire il difetto del quartetto, corrisponde esattamente al loro principale pregio: la mediocrità. L’aver trasformato qualcosa di tanto blando e generico in un trionfo.

Silver Side Up” non è una capolavoro nella forma, ma nella formula. Come avrebbe poi ammesso lo stesso Kroeger qualche anno più tardi, l’obiettivo principale non era quello di registrare dieci belle canzoni, ma dieci potenziali singoli in grado di conquistare senza troppe difficoltà l’etere radiofonico. Per scriverli, il biondissimo frontman non si affidò all’ispirazione, ma a un’intraprendenza e a una sfacciataggine degna del miglior esperto di marketing.

Iniziò ascoltando attentamente tutti i maggiori successi alternative e mainstream dell’epoca, segnandosi su un taccuino le caratteristiche comuni dei brani. Passò poi a un lavoro di ricerca focalizzato sugli elementi capaci di far presa sul grande pubblico: le strutture, le tematiche dei testi, i suoni, la presenza o meno di parti soliste e, last but not least, i ritornelli. Quello della celeberrima ballatona How You Remind Me, tanto per intenderci, parte neanche trenta secondi dopo l’avvio della canzone: il resto è semplicemente un contorno, una successione di quattro accordi utile a riempire gli spazi vuoti.

Fateci caso: le tracce più note di “Silver Side Up” – oltre a How You Remind Me, vi sono Never Again e Too Bad – occupano le primissime posizioni della scaletta, intervallate solo dalla piacevolmente cafona Woke Up This Morning. Il motivo? È presto detto: mettere subito in mostra i pezzi pregiati. I cavalli di razza su cui puntare fortissimo. Subito dopo, il nulla o quasi. Riempitivi che si fanno ascoltare volentieri, ma che difficilmente riescono a lasciare il segno. Inconsistenti come quelle chiacchierate sterili che si fanno tra semisconosciuti prima di entrare in ufficio. Saporiti come un panino del McDonald’s: lo mangi con gusto, ma non ti toglie l’appetito. Ne vuoi ancora, ancora e ancora: sai che fa male, ma continui a non essere sazio.

Un vuoto incolmabile, tanto mortificante quanto innocuo, che diciotto anni fa i Nickelback tradussero in un suono corposo, pulito e all’apparenza perfetto, privo di quei piccoli errori che ci ricordano che, in fondo in fondo, siamo semplicemente esseri umani. Fecero bene? Naturalmente sì: “Silver Side Up” ha venduto più di dieci milioni di copie in tutto il mondo, dando slancio alla carriera di un gruppo che, tra pochi alti e innumerevoli bassi, continua a esistere. Come si fa a odiarli? Io, sinceramente, li invidio.

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