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“Black Sabbath”, le origini del male

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Il rumore della pioggia, un suono di campane a morto, poi un fragoroso tuono. Tutti gli strumenti entrano insieme in un delirio allucinato, prima in modo potente, poi più posato. Ci sono un tritono di chitarra raggelante, un basso che a momenti si prende tutta la scena, una batteria che da subito traccia sentieri inesplorati. Poi la voce, dal timbro alto e asciutto, annuncia un arrivo imminente:

Cos’è questo che sta davanti a me? / Una figura in nero che mi indica
Mi giro veloce e comincio a correre / Scopro di essere il prescelto

Poi ancora, in ordine sparso:

Satana è seduto, sta sorridendo / Guarda le fiamme alzarsi sempre più
Le persone corrono perché sono spaventate / Gente, andate via e state attenti

Questo è solo l’inizio di un disco, che esce il 13 febbraio – guarda caso un venerdì – di cinquant’anni fa. I quattro cavalieri dell’apocalisse provengono dalla working class di Birmingham, hanno tutti 22 anni e il loro nome è Black Sabbath.

Black Sabbath, 1970: Bill Ward, Tony Iommi, Ozzy Osbourne, Geezer Butler in , (Photo by Chris Walter/WireImage)

Chi per primo ha l’idea di formare una band, quattro anni prima, è Frank Anthony Iommi, detto Tony, ragazzo di origini italiane che ha perso le falangi di due dita della mano destra a causa di una pressa per metalli dell’officina in cui lavora. Ha passato un momento di profondo sconforto, perché da mancino gli risultava impossibile schiacciare le corde con le due dita mozze. Poi ha scoperto Django Reinhardt, uno straordinario ma altrettanto sfortunato chitarrista, che a causa di un incendio aveva la mano sinistra quasi completamente atrofizzata. Django non perse la passione e la dedizione, Tony grazie a lui la ritrovò.

A Tony si accompagna William Thomas Ward, Bill per gli amici, un batterista autodidatta che studia gli stili – molto diversi tra loro – di Ringo Starr, Charlie Watts e Keith Moon. Non ha un soldo Bill, esattamente come Tony, per cui di giorno lavora come camionista e i soldi li spende per comporre poco alla volta il suo strumento.

Un giorno del 1966, Bill e Tony passeggiano per le vie di Aston, un quartiere di Birmingham. Entrano in un negozio di dischi e si imbattono in un annuncio che potrebbe fare al caso loro: “Ozzy Zig requires gig. Owns own P.A.”. Sembra una filastrocca, in realtà è l’ambizione di notorietà di un ragazzo in cerca di successo. Ozzy Zig non vuole semplicemente suonare insieme ad altri, non gli interessa divertirsi o passare qualche ora con gli amici chitarre in braccio: lui vuole concerti, esibizioni, la folla che lo acclama. Ma chi è Ozzy Zig?

Ozzy Osbourne of Black Sabbath, 1970 in , (Photo by Chris Walter/WireImage)

Dopo brevi occhiate d’intesa e qualche scambio di battute, Bill e Tony convengono che Ozzy Zig è esattamente chi credono che sia: John Michael Osbourne. A scuola era dislessico e non riusciva a restare concentrato, la sua balbuzie non gli consentiva di pronunciare nemmeno il suo cognome: “Os… Os… Os…” diceva ogni volta, tanto che i bulletti di classe lo avevano malevolmente soprannominato Ozzy. Uno di quelli con cui faceva a pugni spesso e volentieri era proprio Tony.

Così i due riprendono i contatti, non si piacciono ma scatta subito reciproca stima. Soprattutto, sentita la voce stentorea di Ozzy, Tony inizia ad avere chiaro in mente come fare per adagiarne al meglio il suono delle sue corde. C’è un unico intoppo: Ozzy vuole con sè Terence “Geezer” Butler, il chitarrista del suo vecchio gruppo, i Rare Breed. Tony risponde picche, la chitarra è sua e un gruppo con due solisti della sei corde non è nei suoi progetti, al massimo Geezer può imparare a suonare il basso. A quel punto, Butler fa presente che lui il basso imparerebbe anche a suonarlo, ma non ne ha uno a disposizione. Nessun problema: Tony gli presta la sua Telecaster alla quale rimangono tre corde, la sostanza non è poi tanto diversa.

Si formano così i Polka Tulk Blues Band, che suonano dal jazz al blues, spaziando nelle cover dai Beatles a Jimi Hendrix. Via via che passa il tempo, però, la connotazione dei pezzi proposti e i primi inediti scritti dal gruppo diventano più inquieti, graffiati da venature tragiche. Il nome del gruppo passa in breve tempo da Polka Tulk Blues Band a Polka Tulk, poi i quattro decidono di chiamarsi Earth.

Un giorno vengono chiamati in uno studio di Londra a suonare, loro partono decisi con il tritono maledetto, ma una voce gli urla di fermarsi subito: “Non dovevate incidere la vostra versione di California dreamin?” chiede l’impresario. I quattro scoppiano a ridere, capendo solo dopo qualche minuto di equivoci che non erano loro gli Earth in questione. Bisognava cambiare nome alla band.

Nel dicembre del 1968 accade un evento che può cambiare per sempre le sorti del gruppo: Tony Iommi viene chiamato da Ian Anderson in persona per unirsi ai Jethro Tull. A Londra sta per sbarcare un carrozzone da paura: la BBC ha infatti organizzato un concerto negli Intertel Studios di Wembley durante il quale si sarebbero alternati sul palco gli stessi Jethro, gli Who, i Rolling Stones e i Dirty Mac, un supergruppo formato da Mick Jagger e John Lennon alla voce, Eric Clapton alla chitarra, Mitch Mitchell – il batterista della Jimi Hendrix Experience – e Keith Richards (inspiegabilmente) al basso.

Lo show si svolge regolarmente, ma non viene mandato in onda se non 28 anni dopo. Gli Stones lo impediscono perché pare che a Jagger non sia piaciuta l’esibizione del supergruppo con Lennon e gli altri. Ma la notizia è che Tony Iommi, dopo soli quattro giorni di prove e il concerto a Londra, rifiuta l’offerta dei Jethro Tull. Un grandissimo gruppo, a suo dire, ma non il suo gruppo. Tony vuole accanto a sé i ragazzi del suo quartiere, i compagni di scorribande nei pub di Birmingham. L’essere tornati assieme conferisce un incredibile impulso alla produzione dei quattro.

Nelle settimane successive la band è impegnata in un mini tour promozionale in Danimarca e di fronte al loro hotel c’è un cinema. Quando viene proiettato un film horror si creano file interminabili. Guardando quella calca, Tony una sera si chiede: se c’è gente che paga per spaventarsi al cinema, perché non può farlo comprando un disco o andando a un concerto? Come per magia – è proprio il caso di dirlo – viene fuori quel folgorante tritono di chitarra, proprio mentre Ozzy scrive un testo pensato per essere il più terrificante possibile. Manca il titolo, qualcosa di sensazionale da annunciare insieme al nome della band: è a quel punto che sale in cattedra il talento di Geezer.

Terence è un appassionato di lettura e di cinema, ama il genere horror, soprattutto a sfondo esoterico. Uno dei suoi autori preferiti è Dennis Wheatley, considerato in patria come un maestro del genere. Geezer, in particolare, già all’epoca nota la stretta interconnessione tra romanzi e film: ci sono libri che somigliano a sceneggiature cinematografiche, il regista non deve far altro che leggerlo, praticamente il copione è già bello e pronto. Molti romanzi di Wheatley sono diventati film.

Sempre a proposito di pellicole ispirate da libri, a Terence piace tantissimo Mario Bava, regista italiano tra i pionieri del terrore. I tre volti della paura, un film in tre episodi che riprendono altrettanti scritti rispettivamente di Snyder, Tolstoj e Cechov ha dentro tutto il suo immaginario preferito: relazioni sentimentali che finiscono in tragedia, vampirismo, sedute spiritiche ed eventi paranormali.

I fili si collegano in modo perfetto e definitivo quando i quattro di Birmingham cercano di saperne di più sul titolo di quel film. Nel mercato anglosassone la pellicola esce con il titolo Black Sabbath e, in un sol colpo, Geezer si rende conto di aver trovato il nome del suo pezzo, del suo gruppo e del primo album.

La parola Sabbath deriva da sabba, che per le antiche credenze centro europee era una riunione di streghe in presenza del demonio. Suona male a detta di alcuni colleghi musicisti e del loro agente Jim Simpson, ma a loro piace. Nel frattempo si parte per un tour in Germania, ad Amburgo Simpson ha diversi amici in grado di procurare qualche data e una paga fissa ai suoi ragazzi. Al ritorno è in programma qualche scarrozzata a Londra ma, prima di organizzare i concerti, Simpson chiama i quattro nel suo studio.

Dalla sua borsa da manager tira fuori un Lp. La copertina su scala cromatica verdastra raffigura un mulino ad acqua inserito in un contesto spettrale: tutto intorno ci sono foglie morte e alberi inquietanti. Al centro della scena, in piedi, c’è una pallida figura femminile, dai capelli corvini lunghissimi, avvolta in abiti scuri. In alto a sinistra, nell’unico squarcio di cielo plumbeo che si intravede, campeggia il nome Black Sabbath scritto in nero con caratteri gotici. La storia ha finalmente inizio.

Ma non è tutto. Nell’interno della copertina, il work art comprende una croce rovesciata su sfondo nero e un breve racconto horror. Proprio le croci saranno una costante per Ozzy e soci nell’immediato futuro. In un’intervista di metà anni settanta, Bill Ward dichiarerà che le indossavano per difendersi dagli spiriti maligni (!): i membri della band erano infatti oggetto delle “attenzioni” dei satanisti, quelli veri, che li incolpavano di spettacolarizzare un po’ troppo una cosa molto seria come l’adorazione del demonio.

Il 13 febbraio del 1970, come detto, l’album fa il suo esordio in commercio grazie alla Vertigo, un’etichetta discografica dipendente dalla Philips nata l’anno prima per promuovere artisti giovani e alternativi. Dentro ci sono 7 brani, compresa ovviamente la title track.

Complessivamente è un disco acerbo, sospeso tra il passato e il futuro della band. Il singolo Evil woman, ad esempio, ma anche The wizard, risentono della storia recente d’impostazione blues. Behind the wall of sleep è ancora una via di mezzo, mentre N.I.B. e Sleeping village rappresentano già il primo manifesto programmatico della produzione immediatamente successiva. E poi c’è Warning, dieci minuti e mezzo quasi esclusivamente di chitarra nei quali Tony riesce nell’intento di esagerare.

Acerbo sì, ma rivoluzionario in modo assoluto. “Black Sabbath” non appartiene ad alcun genere ascoltato fino a quel momento. C’era chi, come i Led Zeppelin e i Deep Purple, usava una forma di rock un po’ più spinto, ma nessuno suonava come Ozzy e i suoi. Al confronto con Tony Iommi, sembrava che Jimmy Page scherzasse.

I testi degli altri – ad esempio i più estremi Velvet Underground e Doors – per quanto espliciti non arrivano alle vette raggiunte da N.I.B., un pezzo che sembra scritto da un ragazzo innamorato fino al momento in cui lui dice: “Ora ti ho con me, sotto il mio potere / Il nostro amore diventa più forte ogni ora che passa / Guardami negli occhi, vedrai chi sono / Il mio nome è Lucifero, per favore prendi la mia mano”.

Nondimeno, è chiara l’influenza che i quattro avranno nella genesi e nello sviluppo di generi musicali e relative derivazioni, ad esempio il doom metal. Anche i temi trattati faranno da spartiacque, perché tutta la critica riconoscerà l’inizio di un rock “nero”, a sfondo tragico, in netta contrapposizione ai temi tipici dei loro coevi “bianchi” Led Zeppelin.

Al momento della pubblicazione di “Black Sabbath” erano già pronti diversi altri pezzi, tra cui War pigs, Rat Salad e Fairies Wear Boots, la cui incisione fu solo rimandata. A settembre di quello stesso anno il sabba nero darà vita a “Paranoid”, la sua seconda evocazione.

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