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Il lento abbandonarsi all’estasi di “Dead Can Dance”

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È uno schianto o un’esplosione? Poco importa: sta di fatto che l’avventura dei Dead Can Dance iniziò proprio in questa maniera, con il fragoroso rumore che apre la strumentale The Fatal Impact. Un avvio assordante per un album d’esordio che, almeno a livello sonoro, predilige in realtà atmosfere quanto mai evanescenti. Se è vero però che è meglio non fermarsi mai alle prime impressioni per esprimere un giudizio, allora è necessario addentrarsi nei meandri di questo affascinante labirinto musicale per provare a comprenderne la vera essenza. Bisogna semplicemente aprire le orecchie, chiudere gli occhi e lasciarsi trascinare dalle voci di Brendan Perry e Lisa Gerrard: due fiammelle di vita in un oceano di siderale post-punk dai toni mistici e ultraterreni.

È indubbiamente rock, ma è anche qualcosa di molto più complesso e, soprattutto, indefinibile. Non è ancora ancestrale come diverrà in seguito, ma può già essere considerata una sorta di esperienza extracorporea; i paradossi si incontrano e si scontrano dando vita a soavi melodie che scorrono via quasi evaporando, in bilico tra luci celestiali e abissi di impenetrabile oscurità. Tanto per riprendere uno dei versi cantati da Perry nella ruvida e tenebrosa The Trial, “tutti i sensi si ribellano” al cospetto dell’insondabile intensità della musica dei Dead Can Dance.

È un lento abbandonarsi all’estasi. In Frontier, le insistenti percussioni tribali e i gorgheggi da muezzin di Lisa Gerrard ci trasportano in un Medio Oriente avvolto da fumi industriali; la leggerezza di Fortune, invece,dà un po’ di colore ai paesaggi dark disegnati da una linea di basso che sembra uscire dal plettro di Simon Gallup dei Cure. La voce incredibilmente vibrante sfoderata dall’australiana Gerrard in Ocean riesce in qualche modo ad amplificare l’effetto delay sulle chitarre: ogni nota è una piccola goccia d’acqua, che si propaga in un mare di intricati arpeggi.

Nella deliziosa East Of Eden – forma primigenia di shoegaze – sono ancora le sei corde a occupare il centro del palcoscenico: prima ci accarezzano con accordi delicatissimi, poi ci sconquassano i timpani con lancinanti pennate tremolanti. Il ritmo ossessivo di Threshold trova un appiglio nei vocalizzi intrisi di nervosismo di Lisa Gerrard, ma in parte si stempera nei placidi suoni acquatici che fanno da sottofondo. Forte del suo miglior timbro da crooner, Brendan Perry trasforma A Passage In Time – un pezzo post-punk abbastanza tradizionale, con un bel ritornello pop – in una versione funebre di un brano degli U2 degli albori.

Se Jim Morrison fosse stato vivo negli anni ’80, probabilmente avrebbe apprezzato immensamente Wild In The Woods: una litania elettrica opprimente, plumbea e dal vaghissimo sapore blues. Un degno antipasto prima della portata principale, ovvero l’ammaliante Musica Eternal. Il debutto dei Dead Can Dance si chiude con un assaggio di futuro: le voci di Gerrard e Perry si intrecciano e si fondono tra loro, sfiorando quelle dimensioni spirituali e mistiche che, in seguito, sarebbero diventate una seconda casa. A fare da tappeto sonoro, dei semplici rintocchi sullo yangqin. È quindi un antichissimo strumento della tradizione cinese a tirarci fuori da questo dedalo di canzoni senza tempo che, a distanza di quasi quattro decenni dalla loro pubblicazione, continuano a suscitare una sinistra meraviglia. E come potrebbe essere altrimenti, quando si ha a che fare con dei cadaveri danzanti?

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