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“The Dark Side Of The Moon”: un diamante pazzo dietro una porta chiusa

Dark Side Of The Moon
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Il primo scorcio del decennio ’70 è stato un periodo di grandi cambiamenti. In breve tempo si è passati dall’illusione alla delusione, dal sogno alla tragica realtà. C’è stato un tempo – idealmente definito nei contorni del triennio 1967/69 – in cui milioni di persone hanno davvero creduto alla chimera di un mondo libero dai filtri creati dal cervello umano, un mondo in cui la filosofia hippy avrebbe governato l’intero pianeta. Il nuovo messia, al quale affidare la missione di salvezza del genere umano, era Aldous Huxley, il padre del pensiero psichedelico. Non bastava il sogno, per allargare la percezione bisognava essere svegli ed assumere droghe sintetiche, su tutte la mescalina, così da dare colore all’esperienza derivante dall’ambiente circostante. È in questo contesto socioculturale che nascono i Pink Floyd di Syd Barrett.

La storia ha inizio in un momento ben preciso: 29 aprile 1967. Quella sera, all’Alexandra Palace di Londra, si tiene The Technicolor Dream, un evento multi-artistico ideato per raccogliere fondi in favore del giornale di controcultura inglese International Times. Ci sono poeti, pittori e musicisti, ma il main event è l’esibizione del gruppo rock londinese. Quell’epoca proseguì sospesa tra il sogno di cambiare il mondo – si pensi al Sessantotto – e la realtà alterata dagli estratti di peyote. In qualche modo i giovani vivevano con la consapevolezza che quel momento storico non finisse mai.

Al contrario, il risveglio arrivò presto e il ridimensionamento di quella realtà così fluida e in continua trasformazione costrinse quei ragazzi a fare i conti con le dimensioni della tragedia. Quelle stesse droghe – strumenti un tempo in grado di aprire la mente a nuove esperienze – erano diventate armi di distruzione di massa: tantissime furono le vittime, molti altri vissero ancora diversi anni ma in uno stato di fatto vegetativo. Tra questi ultimi il più illustre fu il diamante pazzo Syd.

Dal punto di vista strettamente artistico, “Meddle” nel 1971 – che culmina con il colossale “Live at Pompeii” – è l’ultimo capitolo di quella fase. Da quel momento, Gilmour, Waters, Wright e Mason realizzano che è arrivato il momento di cambiare registro.

Come di consueto, i Pink Floyd portano in tour gran parte del nuovo materiale, e il titolo “The Dark Side Of The Moon” inizia a circolare da subito in modo abbastanza insistente. Il destino vuole che nel 1972 un altra band, i Medicine Head, avesse inciso un album con quel titolo, così la scelta stava per ricadere su Eclipse. Ma dopo qualche mese – constatato il flop dell’”altro” Dark side – al gruppo ne viene dato il via libera all’utilizzo.

Sul piano musicale, David Gilmour mette subito le cose in chiaro: il messaggio deve essere più compatto rispetto al passato. Tradotto in termini pratici, basta suite ai limiti della mezz’ora e basta con quella “roba psichedelica” che prevedeva una melassa sonora costruita su un solo accordo. L’idea di fondo è quella di un concept album, con tracce di durata onesta ma con un suono omogeneo, che scorra in modo continuo dall’inizio alla fine. I quattro avevano già sperimentato qualcosa di simile qualche anno prima con The Man e The Journey, due lunghe suite composte da diversi movimenti musicali ma fino a quel momento eseguite solo dal vivo e in diverse versioni. All’atto di incidere un disco con il materiale raccolto, tuttavia, non se ne fece più niente perché la scelta ricadde su altri pezzi già in cantiere, che messi insieme diedero vita a “Ummagumma”.

Ma dentro la musica ci vuole un’anima, qualcosa che parli alle persone cercando di intuire il loro stato d’animo. Al contempo, il disco deve essere anche l’occasione per comunicare ad una platea ormai matura che sono finiti i tempi in cui il pensiero dominante era di matrice hippy. L’anello di congiunzione tra ciò che arriva da fuori e che fuori deve tornare è, ancora una volta, Syd Barrett: il disco ha come filo conduttore tutto ciò che porta l’uomo alla pazzia.

Le registrazioni partono a maggio del 1972 negli studi londinesi di Abbey Road, la direzione dei lavori viene affidata ad Alan Parsons: mettersi nelle mani del fonico londinese significa viaggiare nel futuro. Parsons, peraltro, a Abbey Road è di casa: lì ha conseguito il titolo di ingegnere del suono con EMI e sempre lì ha dato vita a diverse opere storiche, tra cui l’omonimo – degli studi, ovviamente – album dei Beatles, e il mai troppo amato (da Gilmour soprattutto) “Atom Heart Mother”. In breve tempo, Parsons si scatena come meglio non potrebbe. Per carità, non viene introdotto nulla di particolarmente innovativo, bensì è il complesso di cui si compone la strumentazione ad essere utilizzato tutto insieme forse per la prima volta nella storia.

A partire dalla registrazione, effettuata su un sedici piste. Gli effetti sonori possono essere considerati la vera chicca del disco: in un unico pentolone di circa 40 minuti finiscono suoni metronomici, loop di singole note o di semplici rumori, effetto cross-fade (utilizzato per introdurre un suono mentre sfuma il volume di quello precedente), accordi di pianoforte suonati al contrario, suono della grancassa modificato a tal punto da sembrare un battito cardiaco. Dulcis in fundo, le singole tracce vengono sfruttate al fine di raddoppiare i suoni, ad esempio quello della chitarra. Elementi, questi, che in un concerto erano spesso impossibili da riprodurre, ma che per qualche strano e mai chiarito motivo attiravano morbosamente l’attenzione di Waters e soci.

Il colpo di genio, che avvicina “The Dark Side Of The Moon” più a un disco di musica concreta che a un’opera rock, è l’incisione di rumori, come i passi frettolosi di un tecnico che corre verso la sala prove, il tintinnio di monete, il ticchettio di orologi e lo scoccare in contemporanea di diverse sveglie. E poi ci sono le voci, gente che parla. Roger Waters pensò bene di convocare le persone al lavoro negli studi londinesi – anche addetti alle pulizie – ponendo le domande più disparate, da “qual è il tuo colore preferito?” a “hai paura di morire?”. La leggenda narra che tra gli intervistati ci fossero anche i coniugi McCartney, impegnati a Abbey Road per registrare alcuni pezzi per i Wings, ma l’altro bassista (Roger Waters, of course!) si rifiutò di inserire le loro voci perché percepì nelle risposte un po’ troppa ironia.

Il concept prende vita seguendo un doppio binario. Da un lato ci sono i titoli dei brani, che da Speak To Me e Breathe fino a Brain Damage e Eclipse tracciano il cammino della vita umana. Poi c’è il tema dominante: la pazzia, uno stato di alterazione mentale raggiunto attraverso l’ossessione nutrita verso taluni elementi cardine. L’uomo non riesce a tirare un sospiro a causa della frenesia delle sue giornate lavorative (Breathe e On The Run), assiste impotente allo scorrere del tempo (Time), ha paura della morte (The Great Gig In The Sky), desidera accumulare ricchezza (Money), soffre – spesso sulla propria pelle – le divisioni sociali (Us And Them), cova la pazzia dentro di sé (Brain Damage) e alla fine si spegne (Eclipse).         

Alla fine di gennaio del ’73 il disco aveva tutti i suoi elementi “interni”, mancava solo il confezionamento: ecco quindi che entra in gioco lo studio Hipgnosis di George Hardie, che già in passato – ad esempio con “Atom HeartMmother” – si era distinta per la creazione di copertine, come dire… originali. La EMI non gradiva l’eliminazione del nome dell’artista e del titolo dell’album, ma l’ultima parola, nel caso dei Pink Floyd, spettava al gruppo e non alla produzione.

Gli aspetti grafici sono curati da Rick Wright, che chiede a Hardie qualcosa di elegante. Dopo diversi giorni lo studio sottopone al gruppo alcuni disegni, ma i quattro all’unanimità scelgono l’ormai leggendario prisma – ideato dall’altrettanto leggendario Storm Thorgerson – che riflette un fascio di luce colorata. Sfondo nero, nient’altro. Un’opera che troverebbe posto in qualsiasi museo di arte moderna del mondo, e che potrebbe essere studiata da centinaia di critici i quali potrebbero darne un’interpretazione diversa ad ogni sguardo.

A inizio marzo del ’73 il disco viene pubblicato, entra in classifica e non ne esce più: ancora oggi, a distanza di 47 anni, è presente nella Billboard 200 con il record assoluto di quasi 1000 settimane di presenza, di cui 741 consecutive. Ciò significa che mentre i vari “Wish you were here”, “Animals” e “The Wall” vendevano a livelli industriali, “The Dark Side Of The Moon” era ancora lì, qualche posizione più in basso, a fare capolino. 

Oltre ai testi delle canzoni e all’impianto musicale, da quasi cinquant’anni si discute su cosa ci possa essere sul suolo del lato oscuro della luna. Ma a tutti sfugge un particolare, saggiamente spiegato in Speak to me da Gerry O’Driscoll, il portiere degli studi di Abbey Road: “In realtà non c’è nessun lato oscuro della luna. Di fatto è tutta scura. L’unica cosa che la fa sembrare luminosa è il sole”.

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