Ci sono momenti della nostra vita in cui facciamo più fatica a vedere la luce. È in quei momenti che sentiamo il bisogno di essere cullati, ritornando bambini per un po’, ora protetti e confortati, ora trasportati da una dolce malinconia. Ed è questa la sensazione che “Farewell To All We Know” ci lascia: quella di un viaggio amaro e rassegnato nei più tristi anfratti della realtà, in cui veniamo trasportati dolcemente, senza la volontà di una redenzione né la ricerca di una catarsi.
L’ultimo album di Matt Elliott è il frutto di una maggior consapevolezza artistica, un inno alla malinconia a cui ci aveva già fatto abituare con “Drinking Songs”, a sua volta un capolavoro in cui una melodia languida, racchiusa in una struttura minimalista e contornata da tenui suoni di violino, può ben rappresentare una barca che lentamente va a fondo. Il nuovo disco vede protagonisti Gaspar Claus al violoncello, che con i suoi suoni strazianti dà un’atmosfera tragica e si armonizza perfettamente alla voce bassa di Elliott, Jeff Hallam al basso e David Chalmin agli arrangiamenti.
Atmosfera che si nota da subito in What Once Was Hope, canzone d’inizio che, quasi come una vecchia ninnananna, ci prende per mano sussurrandoci che il viaggio che stiamo intraprendendo non sarà piacevole, non ci dirà quello che vogliamo sentire, ma semplicemente ci permetterà di fare un’introspezione di noi stessi e, se necessario, di lasciar andare i fantasmi presenti nella nostra mente. Di mollare l’ancora e staccarsi dal passato, dalla memoria e dai ricordi, accogliendo l’ignoto. Ed ecco che Farewell To All We Know riprende il percorso che si è appena aperto, incoraggiandoci a tagliare i legami con un passato infelice:
Farewell to all that we know
All that we’ve left behind
All that we have let go
All we’ll never find
All that we came to love
All that we let go wrong
Ancora Hating The Player, Hating The Game ci esorta a “odiare il gioco” della vita, uscendone del tutto dai canoni e dalla monotonia.Infine, tra le altre, Aboulia è un malinconico lamento, la rappresentazione di un uomo che, privo di inerzia e dunque di volontà, si lascia andare al corso degli eventi, sopraffatto dalla fatalità del destino che lo ha privato di una persona cara (“Silence was all that I heard / When you left without a word”): evento segnante a tal punto che, raggiunto il parossismo, l’unico rimedio è abbandonarsi e perdersi tra le onde (” Stranded lost amidst the waves”) di un oceano di dolore.
Un disco che, se posto a confronto coi lavori precedenti, rappresenta perfettamente la figura artistica di Elliott: un animo folk che mai lascia annoiato chi lo ascolta, riuscendo a fondere uno stile sobrio e limpido con atmosfere malinconiche e talvolta tragiche, che tutti sentiamo il bisogno di concederci ogni tanto.