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The Strokes – The New Abnormal

2020 - RCA Records
indie rock

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Tracklist

1. The Adults Are Talking
2. Selfless
3. Brooklyn Bridge to Chorus
4. Bad Decisions
5. Eternal Summer
6. At the Door
7. Why Are Sundays So Depressing
8. Not the Same Anymore
9. Ode to the Mets


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The New Abnormal“: è questo il titolo del nuovo, attesissimo album dei The Strokes, eroi indiscussi della “new rock revolution” nella Grande Mela a cavallo tra anni Novanta e Duemila, a fianco di band quali Interpol, LCD Soundsystem, Walkmen e Yeah Yeah Yeahs. Sette lunghi anni sono passati dal loro ultimo LP, “Countdown Machine” (2013), etichettato dalla critica come l’ennesimo capitolo confuso e privo d’ispirazione nella storia di una band che sembra vivere di rendita dai tempi di “Is This It” (2001).

L’arrivo di questo sesto lavoro è stato anticipato dal rilascio di tre singoli piuttosto eterogenei. Il primo ad arrivare è stato At The Door, una meravigliosa ballata di saliscendi sintetici, priva di chitarre e con un pizzico di autotune, una vera e propria ventata d’aria fresca guardando in retrospettiva alla non proprio variegata tavolozza della band. Un brano che sembra scritto appositamente per la critica, sempre avida di nuove acrobazie ed evoluzioni sonore, sempre pronta ad additare gli artisti troppo “conigli” per prendere dei rischi, specie quelli con alle spalle una carriera pluridecennale. Una buona novità, dunque, che ritroviamo nell’urgenza ovattata e vagamente malinconica di The Adults Are Talking così come nei leggerissimi falsetti di Selfless. Questo è ciò che accade quando Albert Hammond Jr. e Nick Valensi abbandonano la loro sei corde allo spirito elettronico e modernista di Julian Casablancas, il quale – bisogna ammetterlo – è diventato un performer di un certo livello, oltre che songwriter (non si dimentichi che i primi tre album a nome The Strokes sono creditati a lui e lui soltanto).

Il secondo singolo ad arrivare è stato Bad Decisions, una parentesi che – sebbene si collochi nel ben più ovvio calderone del pop-rock indipendente anni Duemila – ci ipnotizza con un riff che sembra uscito direttamente dalla penna di Billy Idol (al punto che gli “oh, oh, oh-oh” del ritornello ci ricordano proprio quelli di Dancing With Myself). Un brano che piacerà ai fan di una vita, a quelli che imbracciano una air-guitar ogni volta che Someday o Last Nite partono alla radio, a quelli che riescono a farsi piacere anche un album come “Angels” (2011). E gli anni Ottanta si ripresentano ancora più vividi nei sei minuti abbondanti di Eternal Summer, omaggio ai Psychedelic Furs e riuscitissima hit dal piglio groovy e cinematico, con un finale degno dei migliori Daft Punk (con tanto di vocoder). Un trend, questo di rispolverare gli eighties, più che evidente nelle band della scena “indie” anni Duemila (basti pensare agli MGMT di “Little Dark Age”).

Il terzo singolo ad arrivare, rilasciato giusto qualche giorno fa, è stato infine Brooklyn Bridge To Chorus, una composizione di una mediocrità disarmante, che sembra scritta appositamente per Virgin Radio (non me ne vogliano i fan di Dj Ringo e dei suoi amatissimi Green Day), con tanto di sintetizzatori trash ed assoletto da quattro soldi. Sebbene nessun altro brano raggiunga questo baratro (“can we switch into the chorus right now?”, sul serio?), se ne avvicinano pericolosamente Why Are Sunday’s So Depressing e Not The Same Anymore, intrise di una fastidiosa aurea digitale la prima, di una pedante patina soporifera la seconda. Il compito di chiudere “The New Abnormal” è lasciato tuttavia agli ispirati divertissement sintetetici di Ode To The Mets, uno sguardo alla triste realtà: l’amore per il baseball potrebbe davvero essere l’unica cosa che i cinque non-più-ragazzi di New York hanno ancora in comune.

I The Strokes hanno accompagnato una buona fetta di noi millennials nell’adolescenza, rivelandoci come i “cool rich kids” parlano agli estranei (“tell us a story, I know you’re not boring”) e gestiscono le loro relazioni, amorose (“no, girlfriends, they don’t understand”) e non (“some people think they’re always right”). Per questo gliene sarò per sempre grato. Tuttavia, bisogna essere oggettivi: pensare di rimettere insieme una band formata da membri che fanno fatica a guardarsi in faccia e con ben altre priorità in testa (i loro progetti solisti) suona come una battaglia persa a tavolino, difficile da vincere persino sotto il comando di un produttore ultra-decorato come Rick Rubin e con un Basquiat in copertina (“Bird on Money”, anch’esso prodotto dei sopracitati eighties).

Nonostante questo, Julian, Albert, Nick, Fabrizio e Nikolai si sono tappati il naso e hanno provato ad accontentare un po’ tutti con una slackline musicale in bilico tra orecchiabilità electro-pop ed energia indie-rock. Il problema? Camminare su una corda sospesa nell’aria al varco dei quarant’anni non è proprio cosa per tutti. Il rischio è cadere e fare la fine dei The Killers, cristallizzati in un limbo di sufficienza, pionieri di un genere che è tutto fuorchè indispensabile. Il mio avviso? Incrociate le dita, mentre lo ascoltate. Se tutto va bene, potrebbe addirittura piacervi.

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