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“Excellent Italian Greyhound”, correre veloci e maestosi come levrieri

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Excellent Italian Greyhound” è la quarta fatica discografica su cinque della quasi trentennale band di Chicago da sempre capitanata da Steve Albini. Siamo nel 2007, sono passati ben sette anni dallo step precedente, 1000 Hurts; ricordo la trepidazione di chi, già in fissa con gli Shellac, non aspettava altro se non un proseguo ai tre capitoli antecedenti (incluso me che proprio in quegli anni ho maturato il mio interesse per la loro musica) e per cui, quindi, l’avere in mano un disco arrivato senza alcun tipo di preavviso né singoli anticipanti l’uscita, come solitamente funziona, ha rappresentato un doppio motivo di adorazione ed entusiasmo.

Preamboli a parte, “Excellent Italian Greyhound mantiene alta la promessa che implicitamente ogni singolo brano degli Shellac in passato ha fatto: quella di restare la band validissima di sempre. L’asticella della qualità si mantiene alta anche in questo caso, il sound è quello tipicamente asciutto e aggressivo della tradizione Shellac, quello grezzo e sostanziale che ha contribuito moltissimo a rendere la decade dei Novanta la meraviglia che è anche grazie al loro fondamentale contributo.

Già dall’ouverture, The End Of The Radio, è assolutamente percepibile la voglia di mantenere la stessa incommensurabile lunghezza d’onda, quella dal ritmo battente e cadenzato. Albini si fa portavoce per descrivere cosa sta per accadere, impersonifica l’ultimo uomo sulla terra, nonché ultimo dj, che preannuncia la fine dalla stazione radio di cui è conduttore; il tutto su una base ipnotica, lenta e piacevolmente ripetitiva in pieno stile Shellac (della durata, inoltre, di quasi nove minuti!). Nessuno è all’ascolto, nessun destinatario random riceverà il suo messaggio: il suo è l’ultimo annuncio e quello che propone è l’ultimo disco prima della fine assoluta.

Il resto dell’album procede che è una bellezza, Steady As She Goes, come anche la successiva Elephant, cambiano il registro dell’andazzo rendendolo più ballabile e movimentato. Altrettanto interesse meritano le strumentali Kittypant e Paco e senz’altro anche le più tirate Boycott e Spoke. Discorso a parte per il brano Genuine Lullabelle, anch’esso molto lungo e caratterizzato da una parte centrale con silenzi e voci recitanti (e con tanto di voce femminile che sul finale recita in Italiano: “Questi sono solo episodi, una persona non può essere segnata da un singolo momento, rispettatemi per come si debba rispettare chi ha vissuto una vita completa e complicata”). 

Eh, gli Shellac, un nome e una garanzia. Dopo cinque dischi all’attivo, con le dovute pause causa impegni vari da parte di ognuno dei componenti della band, e i rilevanti trionfi raccolti nel tempo, sono stati capaci di solcare un territorio già senz’altro esplorato ma in modo personale e segnante. Cosa sarebbero stati, mi viene inevitabile da chiedermi, gli anni Novanta senza gruppi come gli Shellac, i Pixies e via dicendo? Che stimoli avrebbero avuto le band (italiane ed internazionali) nate nelle decadi successive, come quelle del Duemila? Di cosa si sarebbero nutrite, musicalmente parlando? Di tutt’altro, indubbiamente, e di tutt’altra natura sarebbe stata la linea di giuntura fra di esse.

Ad oggi, vedere quanto siano state stimolanti le idee di Steve Albini, di Bob Weston e di Todd Stanford Trainer non solo per gli anni in cui hanno cominciato a farsi notare ma anche per i tempi a venire, e quanto le loro lezioni siano state colte e mai dimenticate, rende la musica un mondo molto più affascinante di quello che si pensa. Tutto questo per dire che gli Shellac sono stati, e continuano ad essere, importanti come pochi, nonostante la loro non estrema notorietà (che, in fin dei conti, un male non è, non sempre si prospetta un buon destino per le band che decidono di aprirsi, diciamo così, al mercato) e a discapito delle vendite o di qualsiasi altra macchinerìa prevista dal mondo discografico.        

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