Impatto Sonoro
Menu

Interviste

Un dialogo aperto sulle piaghe dell’animo umano: intervista a Cristiano Godano

(c) Guido Harari

Il 26 giugno è uscito “Mi ero perso il cuore” (qui la nostra recensione) l’esordio solista di Cristiano Godano, cantante e chitarrista dei Marlene Kuntz. Queste canzoni raccontano, attraverso molteplici punti di vista, “i demoni della mente che sono portatori di menzogne”. Abbiamo incontrato di persona l’artista cuneese e, in un’ora di intervista, sono emerse elucubrazioni valide ed interessanti.

Mi sai indicare le coordinate geografiche e temporali di “Mi ero perso il cuore”?

Se devo localizzare un luogo indico casa mia, le mie sveglie mattutine anche in boxer senza neanche vestirmi con una qualche smania per riprendere il pezzo fatto il giorno prima. Questo processo è durato per parecchi mesi ovviamente non tutti i giorni poi facevo anche altre cose, andavo in giro a fare i concerti con i Marlene Kuntz. Ci sono state ondate di creatività che mi hanno portato ad ottenere almeno una sessantina di spunti, tutte potenziali tracce ad un buon livello di avanzamento. In realtà ho cominciato a pensarci prima al fatto che un giorno mi sarebbe piaciuto fare un disco solista. I brani che ci sono in “Mi ero perso il cuore” rappresentano esattamente quello che io volevo per le mie canzoni e che non avrei mai potuto ottenere da Riccardo e Luca. Quando sono in casa strimpello la chitarra e non la suono con un’attitudine sonica non mi viene, non lo farei mai anche perché prendo la chitarra acustica e faccio songwriting. Io amo questo modo di suonare. Ho in testa i miei modelli di riferimento. Il mio primo idolo fu Neil Young, lo è ancora oggi, ma anche Johnny Cash, Leonard Cohen, Bob Dylan e tutta una serie di cantautori americani, poche invece le influenze inglesi. Non sono mai stato un fan di Nick Drake preferisco piuttosto John Martyn un artista notevole ed un chitarrista virtuoso. Quando ho cominciato a suonare i pezzi sapendo di non volerli portare in sala prove con la mia band ma di ammucchiarli per trovare prima o poi la forza e la determinazione di andare avanti in un mio progetto solista ecco da quel momento individuo la nascita di un’idea concreta.

Cosa hanno pensato gli altri due membri dei Marlene Kuntz Riccardo Tesio e Luca Bergia di questa tua scelta?

Finchè non ero sicuro non ho detto nulla ad entrambi. Poi quando con Gianni Maroccolo ho capito che lui era felicissimo di farne parte e quindi l’idea si concretizzava allora ho avvisato immediatamente Riccardo e Luca. Io penso che loro temessero che prima o poi questa cosa sarebbe accaduta. Non credo di avergli fatto piacere ma nel momento in cui glielo dicevo ero molto rassicurante perché gli facevo capire che non c’era in me un’uscita di testa ma stavo pensando di fare un mio disco solista tutto qua. I Marlene Kuntz continuano ad essere un progetto che per quanto mi riguarda fino a che c’è linfa vitale è la priorità.

Tutte le canzoni del disco sono state concepite in un periodo pre pandemia. Durante la reclusione forzata a causa del Covid-19 hai continuato a scrivere? Hai mai pensato di aggiungere altro materiale oltre ai pezzi già esistenti?

No perché era tutto particolarmente pronto mancava solo il mastering. Il disco era già stato mixato. Il mood è talmente adeguato alle situazioni che abbiamo vissuto nei tre mesi della cosiddetta reclusione che non c’era veramente niente da aggiungere. È un album accogliente da un punto di vista empatico. Al di là della dimensione scura che è presente nei testi l’atmosfera che promana dai brani credo sia quasi rilassata e questo crea i presupposti per una specie di accoglimento per anime desiderose di qualcosa che non sia il tormentone estivo ma a questo i Marlene Kuntz hanno abdicato da tempo. Ci siamo rassegnati all’idea che un certo di tipo di persone ci detesti appena sente la nostra musica ma anche Nick Cave mica può piacere a tutti…

Le critiche costruttive le ascolti?

Il concetto di critica costruttiva è sempre molto da ragionare. Finchè io non ti chiedo niente puoi anche esimerti dal criticarmi. In un social è come se fossi a casa mia e io non andrei mai in un profilo di un gruppo a spiegare perché un pezzo mi fa schifo. Spero che la critica sia costruttiva ma difficilmente lo è e spesso l’ho trovata disturbante. Mi lamento di questo stato delle cose da quando uscì, ormai una decina di anni fa, l’album dei Marlene Kuntz “Ricoveri virtuali e sexy solitudini” dove feci una canzone [Ricovero virtuale, ndr] divertita più che rabbiosa su questo argomento. Nel testo affermavo: Ma mi fa schifo, sai? L’insensibilità. Penso che i social siano il luogo dell’insensibilità.

Ormai gli haters sono dappertutto…

L’80% dei nostri post trasmettono valori positivi però poi capita che appena prendiamo una posizione di natura etica o politica gli haters spuntano regolarmente e allora mi viene da dire dov’erano quando facevamo una cosa bella e perché criticano solo quando qualcosa gli fa storcere la bocca. Ci si è rassegnati all’esistenza degli haters ma sarebbe stato più bello non doversi rassegnare sapendo che il bon ton e le buone maniere hanno prevalso. L’insensibilità è una cosa che bisogna tenere in considerazione. Io personalmente nei confronti di un mio collega non andrei mai a bullizzarlo, a metterlo alla gogna ma non lo farei neanche sotto falso nome e mi aspetterei che l’umanità fosse brillante al punto tale da sapere che se offendi qualcuno lo offendi.

Ci sono stati commenti che ti hanno dato fastidio?

Io ho perso molta energia appresso a tante stronzate che ho letto perché hai quel senso di frustrante impotenza di non poter replicare perché se tu entri e fai il loro gioco prima gli dai la soddisfazione, la visibilità ed entri in un meccanismo di battibecco dove non c’è nessuna dimensione dialogica ma sono solo due ego che si scontrano. Per fortuna nella nostra casa, nei nostri profili social l’85- 90% sono persone molto per bene che si aspettano esattamente da noi tutto quello che facciamo. Dai post riflessivi e non banali ad uno spazio giusto per suggerire emozioni, sensazioni. C’è uno scambio tra noi e chi ci segue.

Durante le tue dirette su Instagram hai detto che hai scritto delle poesie. Quindi questo stato di quarantena ha giovato alla tua creatività?

No ho fatto queste poesie e basta. Avrei potuto portare avanti un romanzo ma non ci sono minimamente riuscito ho scritto quattro cinque pagine quindi poco. Quando c’è stata questa botta a marzo l’umanità è rimasta stordita. È stato molto difficile reagire. C’è voluto un primo mese di assestamento. I telegiornali erano un stillicidio di notizie ma li guardavamo, seguivamo le opinioni perché era giusto sapere cosa stava accadendo. Durante il secondo mese sono subentrate le preoccupazioni reali e di senso pratico sul lavoro. Si cercava di capire cosa stesse per fare il Governo nei confronti dei musicisti cioè zero. Purtroppo sono stati tre mesi dove la parte pratica dell’esistenza ha prevalso.

(c) Guido Harari

Parliamo del disco. Il titolo è “Mi ero perso il cuore” e, già dal primo brano La mia vincita, spuntano ad un certo punto le parole dedali e prigioni. C’è uno smarrimento interiore reiterato nel corso di tutto l’album?

Nella prima canzone dico che questo smarrimento c’era ma, ritrovando il cuore, ho avuto modo di vincere. I componimenti dopo La mia vincita fanno capire che era una vincita effimera e che le problematiche riaffiorano e i dedali e le prigioni preannunciati ritornano.

In Ti voglio dire la melodia è struggente ma in realtà nel testo ci sono parole di conforto verso un amico che in quel momento è depresso, sta male. È più importante per te il testo o la musica?

Sia in questo disco solitario sia con i Marlene Kuntz non credo di andare mai a privilegiare l’una o l’altra. Mi interessa molto che siano belle entrambe. Quando lavoro alla musica faccio in modo che la composizione sia la migliore possibile soprattutto in questo album che è veramente fatto di canzoni tranne due, tre pezzi che hanno una struttura un po’ più peculiare. Non sento di poter affermare che il testo è più importante della musica.

Le parole tempesta e bestia compaiono in Ti voglio dire e in Com’è possibile?. È una coincidenza che hai scelto queste due canzoni come singoli?

Sì. Durante il processo creativo me ne ero accorto che c’erano alcune parole che tornavano. C’è anche la parola affabile che torna due volte. Ho pensato che non era un problema perché non sempre è prioritaria la necessità di non ripetersi mai. Considera che quei termini a seconda di dove sono contestualizzate assumono significati diversi. In Ti voglio dire è la bestia interiore intesa proprio come stato depressivo dell’amico che va salvato mentre in Com’è possibile è la bestia metaforica che alberga nell’umanità: dall’insensibilità alla cattiveria social di cui abbiamo parlato prima, dall’incapacità di intercettare le priorità per salvare l’uomo sul pianeta al riscaldamento globale, dalla frustrazione alle sperequazioni sociali. Purtroppo è molto triste dirlo ma siamo anche tanti in questo mondo e forse il pianeta non è tarato per gestire il benessere di otto miliardi di persone. Credo siamo in un cul de sac importante. Ho sempre avuto molta fiducia nell’inventiva umana e nella scienza. Attualmente con il Covid-19 con ogni probabilità l’umanità tende ad un vaccino che prima o poi arriverà poi il fatto che venga sfruttato economicamente questo è un altro discorso. La scienza è colei che ci potrà salvare. Se io vado a togliermi un dente c’è un’anestesia e io evito di provare dolore. È la scienza che ha inventato l’anestesia non è stato un politico. Gli scienzati è da tempo che ci stanno dicendo del problema del global warming ma i politici e le lobby di potere non vogliono convincere l’umanità a cambiare qualcosa. Tutto ciò è bestia.

Quanta rabbia in quell’urlo finale nel Lamento del depresso. Questo pezzo è collegato a Ti voglio dire visto che ritorna di nuovo il concetto di amicizia?

In Ti voglio dire c’è l’io narrante che è l’amico che sa cogliere le difficoltà dell’altro perché le conosce e sa come aiutarlo mentre Nel lamento del depresso l’io narrante è il depresso che intercetta un amico che se in Ti voglio dire è un compagno capace e disponbile, in Lamento del depresso è una persona che non è in grado di gestire la situazione e scappa.

Ciò che sarò io possiede una potenza incredibile. Parla di un abbandono?

Io amo quella canzone. L’io narrante del disco racconta i suoi disagi, i demoni della mente che sono portatori di menzogne. Quando il pensiero si fa vorticoso è talmente incalzante e ossessivo che falsa la realtà. In Ciò che sarò io il protagonista è vulnerabile perché è massacrato da questo vortice di pensieri e teme di essere stato abbandonato in modo definitivo.Non a caso nella traccia successiva, Ho bisogno di te, la voce femminile lo rassicura e gli dice che tornerà.

In quattro canzoni Dietro le parole, Figlio e padre, Panico e Nella natura c’è il contributo di un grande polistrumentista Enrico Gabrielli (Calibro 35, The Winstons, Afterhours, Mariposa). Perché proprio lui?

Ho pensato che mi sarebbe piaciuto sentire il flauto da qualche parte nel mio disco e so che lui lo suona. Enrico è davvero un musicista notevole e di particolare buon gusto. Ho pensato al sax su Panico e gli ho proprio detto di produrre il suono più cattivo che potesse. Gli ho citato il free jazz quando il sax diventa quel disturbo, quel grido e poi lui ha prodotto quello che dal suo punto di vista era il fastidio che io desideravo. Poi ha anche suonato il clarino in Nella natura e, in quel caso gli ho suggerito una suggestione alla Beatles, un po’ da banda ci sono dei loro componimenti che hanno un incedere quasi bandistico. Un musicista esterno lo interpelli perché lo stimi, ti fidi e perché possa fare qualcosa che nella tua testa gira ma non sai riprodurre.

Dopo il brano Padre e figlio in Figlio e padre parli della morte. Il figlio ha paura di perdere una persona cara?

No ha paura per se stesso. C’è la paura, ovviamente si parla della morte. Mi fermo.

La canzone Nella natura sembra suggerire l’idea che se una persona è smarrita e confusa può, attraverso una passeggiata nella natura, stare meglio come una sorta di terapia. È così?

Immergersi nella natura è terapeutico per l’animo. In Giappone ci sono delle nuove terapie moderne in cui viene consigliata la camminata nel bosco per chi è depresso o per chi ha un certo tipo di problematiche. Dialogare con la natura ti aiuta con le sue magie e i suoi rumori ad allontanare i demoni e i pensieri ossessivi.

Ho adorato Per sempre mi avrai una chicca che si può ascoltare esclusivamente nel vinile. Come mai questa scelta?

Mi sarebbe piaciuto realizzare un disco di nove, dieci tracce perché tredici canzoni le ascoltano solo i fan incalliti poi però nel momento in cui sono arrivato in studio ne avevo quattordici e mi sembravano una più bella dell’altra. Per sempre mi avrai è la meno amalgamata nel mood dell’album però mi piace molto.

Da dove viene l’ispirazione per i cantautori? Come funziona: più ti eserciti e più ti viene l’ispirazione?

Gli scrittori fanno così e mi sento di consigliarlo a chi vuole fare questo mestiere. È un buon insegnamento. Io ho scritto 160 pezzi ma non mi sono esercitato tutti i giorni non ho questa costanza. Per me anche scrivere una email è un esercizio di scrittura in cui la punteggiatura deve essere eseguita nel modo giusto, non uso abbreviazioni. Su Rolling Stones tengo una mia rubrica [Elzevirus, ndr] per cui cerco di tenermi sempre allenato.

Come vedi la situazione dei concerti post Covid-19?

La maggior parte della gente va ad un concerto rock per essere sollecitata fisicamente, per avere una propria vitalità e, ad oggi, con la poca gente che può entrare nei locali, tutti seduti e distanziati, è una situazione deprimente e, anche dal punto di vista economico, è complicato. Invece se tu suoni in acustico le tue ballate allora è sensato avere un pubblico seduto che ti ascolta. Si può riuscire a creare quel tipo di intimità giusta per le canzoni di questo disco. Questa soluzione penso sia più immaginabile.

Questa è una domanda che avrei voluto farti durante le dirette di Instagram quando chiedevi ai fan di porti dei quesiti sui Marlene Kuntz. Ecco la mia. Cosa provi quando componi una canzone e poi ti rendi conto che non è più tua perché il pubblico l’ha fatta sua e la canta insieme a te? Che effetto fa?.

Considera che c’è un concetto interessante che esula dalla dimensione di mia pertinenza, la musica rock, anche leggendo una poesia, un romanzo alla fine tra l’autore dell’opera e ogni singolo fruitore si instaura un cortocircuito esclusivo, un dialogo ipotetico. È giusto ritenere che un’opera d’arte è conclusa quando il fruitore ha portato il suo contributo. Il lettore attivo, intelligente che collabora con la sua immaginazione chiude questo cerchio con la sua appropriazione e la fa sua secondo quelli che sono i suoi parametri. L’artista è tendenzialmente molto contento quando questo accade. Io l’ho sempre considerato un meritato privilegio quello di saper catturare l’attenzione di molte persone che ogni volta che esce un mio disco sono molto interessate a leggere con attenzione i miei testi. Durante un concerto avviene poi la condivisione massima e, anche se magari la gente canta una canzone interpretandola in un modo diverso dal mio, questo non è un problema per me, non mi turba. È un momento bello, positivo e vitale perché non è assorbimento passivo.

(c) Guido Harari

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Articoli correlati