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Back In Time

“Mother’s Milk”, la rinascita dei Red Hot Chili Peppers

Stati Uniti, 1988. In giro c’è un bel fermento, in classifica trovano spazio i generi più disparati: si va dal pop “mainstream” di George Michael e Michael Jackson al rock dei Def Leppard e dei Guns N’Roses, dagli Inxs nella loro versione più danzereccia alla colonna sonora di Dirty Dancing. 

A Los Angeles c’è un gruppo che, tra alti e bassi, da qualche tempo cerca di farsi strada verso il successo. Si chiamano Red Hot Chili Peppers e, in mezzo ai milioni di suoni più o meno standardizzati di una musica classificata per generi, mischiano in modo piuttosto azzardato sonorità molto diverse tra loro: funk, rock, metal e rap, tutto finisce in una centrifuga che una volta azionata produce qualcosa di originale e decisamente interessante.

Dopo aver inciso qualche disco con alterne fortune, l’anno prima i Red Hot escono con “The Uplift Mofo Party Plan”, in un assetto – dopo diversi diverbi che hanno portato a svariati cambi di formazione – che ormai sembra quello definitivo. Ci sono Anthony Kiedis alla voce, il virtuoso Michael Peter Balzary – in arte Flea – al basso, Jack Irons alla batteria e Hillel Slovak alla chitarra. 

L’album inizia a riscuotere il successo sperato, i concerti fioccano e, seppur in brevissime apparizioni, il nome dei Red Hot Chili Peppers fa la sua comparsa anche in Europa. Al giro di boa di quel 1988, il destino frantuma la band come uno specchio che cade dal piano alto di una signorile palazzina di Rodeo Drive. Il 27 giugno, nella sua casa di Hollywood, la polizia rinviene il cadavere di Hillel Slovak, morto presumibilmente due giorni prima. L’autopsia è impietosa: overdose di eroina.

Per i Red Hot la morte del chitarrista e co-fondatore non rappresenta solo la perdita di un elemento. E’ un colpo al cuore, una ferita profonda. Appresa la tragica notizia, Kiedis piomba in uno stato di alienazione, che lo porta per diverso tempo a vivere una vita che è sua nel corpo, ma non nella mente. Non partecipa al funerale dell’amico e compagno di band e non smette di drogarsi, come se la questione non lo riguardasse o come se fosse morto un tossico qualsiasi. Dal canto suo, Jack Irons sprofonda in uno stato depressivo che comporta stati di delirio allucinato, il desiderio di abbandonare la musica (tornerà anni dopo con i Pearl Jam) e i conati di vomito al solo pensiero di suonare nei Red Hot Chili Peppers senza che Slovak gli saltelli davanti.

Al contrario, Flea mantiene una certa lucidità. E’ triste, deluso, ma al contempo ha gran voglia di ripartire. Dopo diversi tentativi, riesce a convincere Anthony a tornare a cantare e a smettere di buttarsi veleno in corpo. Dopo mesi difficili la band torna a respirare, mancano però gli altri due elementi. 

Partono i provini per completare il gruppo, alla chitarra viene scelto un ragazzo di New York, più giovane di loro, che dice di amare alla follia Hillel Slovak, la sua principale ispirazione nello stile che ha svluppato. Il suo nome è John Frusciante, uno che a detta degli altri due sprigiona quel qualcosa che più si avvicina allo spirito del defunto amico.

Più complicato il discorso riguardante la batteria. Non è facile, anzi a tratti è proprio folle, andare alla ricerca di uno che tutto assieme sappia suonare quattro generi diversi. Nel corso di una delle tante (e noiose, secondo Flea) sedute dedicate alle audizioni, in sala prove si presenta uno strano tipo: bandana in testa, t-shirt dei Metallica e bermuda: “Ma chi è quest’idiota?”, chiede Flea a Anthony. Nemmeno il tempo di rispondere, l’idiota inizia a suonare in modo indiavolato: sembra un batterista di formazione metal, ma insieme mischia decine di inflessioni provenienti da generi diversi. Non bastasse, canta, anzi urla a squarciagola come nella migliore tradizione di rock pesante. A quel punto Kiedis crede davvero di essere circondato da un branco di gorilla psichedelici. 

Alla fine del provino, il ragazzo è talmente gasato che sarebbe pronto per partire in tour il giorno stesso, fa appena in tempo a dire che si chiama Chad Smith. I Red Hot hanno un nuovo batterista.

Poche settimane di lavoro, qualche incisione già fatta – la cover di Fire di Jimi Hendrix, ultima volta in cui ascoltiamo i “vecchi” Red Hot – il titolo ci sarebbe anche: The Rockin’ Freakapotamus, ma per rispetto nei confronti di Slovak che l’aveva pensato si decide di voltare pagina. E’ il momento di rinascere, e la cosa più primordiale, quella che sa di nuovo inizio, è il latte materno. Il 16 agosto del 1989 nasce così “Mother’s milk”, un long infinito, che in 13 tracce butta fuori tutta la rabbia, la delusione e la voglia di emergere che i quattro hanno in corpo.

Il disco si apre con un’inequivocabile intro di chitarra elettrica: Frusciante si presenta così in Good Time Boys. Il vecchio funk rock con declinazioni metal torna a ruggire con Nobody Weird, Stone Cold Bush, Punk Rock Classic e Johnny, Kick A Hole In The Sky. Non mancano le cavalcate rap, come in Magic Johnson, ma in “Mother’s milk” inizia a pulsare il cuore che di lì a poco darà linfa al successo planetario della band. Le sonorità iniziano ad ammorbidirsi, rendendosi fruibili a una platea sempre più vasta, curiosi attratti da quella musica così nuova ma che non scappano al primo urlo atroce o al primo riff lancinante. 

Ecco allora che compaiono la browniana Subway To Venus, la melodica Taste The Pain, la rarità strumentale di Pretty Little Ditty e la morbida Sexy Mexican Maid. Il tutto impreziosito dalla cover di Higher Ground di Stevie Wonder e da Knock Me Down, omaggio a Hillel Slovak nel quale – giustamente – la chitarra è relegata ad un ruolo di spettatrice del nuovo corso intrapreso dalla band. In poco tempo l’album sfiora il milione di copie, ma contemporaneamente decreta la rottura definitiva tra il gruppo e la EMI. Poco male, anzi benissimo: firmato un nuovo contratto con la Warner, Kiedis e soci sottopongono a Rick Rubin un nuovo singolo, che il manager manda subito in produzione senza nemmeno terminarne l’ascolto. Quel pezzo è Give It Away, il primo respiro di “Blood Sugar Sex Magik”.

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