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Ulver – Flowers Of Evil

2020 - House Of Mythology
synth pop

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Tracklist

1. One Last Dance
2. Russian Doll
3. Machine Guns And Peacock Feathers
4. Hour Of The Wolf
5. Apocalypse 1993
6. Little Boy
7. Nostalgia
8. A Thousand Cuts


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Quando l’anima lascia il corpo, le zanne del lupo sono ancora immacolate, segno che l’attacco non è avvenuto in questo mondo. Eppure è qui che si consuma tutto ciò che vediamo e viviamo. Le zampe del branco si muovono veloci sulla neve e passano da questa all’Altra parte lasciando tracce ben visibili. Queste costituiscono la storia del proprio passaggio. La storia degli Ulver.

Quando battono i sentieri degli Uomini lo fanno per seguirne l’evoluzione, e loro stessi si evolvono, senza fermarsi mai. C’è chi sostiene il contrario, ignaro della propria cecità, una malattia che in questo caso non colpisce gli occhi, bensì l’animo. Cosa ci turba del cambiamento? Tutto, poiché ci spaventa l’ignoto. Ignoto non è, però, ciò che fluisce nelle cavità di “Flowers Of Evil”, è solo un balzo in avanti nella propria Storia, per il branco di Krystoffer Rygg. Lo guida ancora una volta in quello che loro stessi definiscono il dorato palazzo del pop. Ma se “The Assassination Of Julius Caesar” fu un assalto vero e proprio per prenderne possesso, il nuovo album è assestamento, occupazione di ogni singola stanza e, infine, del trono in esso riposto, in fondo alla stanza principale. Lupi nella sala del trono, che hanno esplorato a sufficienza, ora possono muoversi con la saggezza di chi conosce la strada.

Ignota non è nemmeno la materia che forma i petali dei fiori del male che gli Ulver hanno seminato nella propria carriera, poiché il profumo che essi emanano è quello di un mondo estintosi più di trent’anni or sono e che ritorna, nei corsi e ricorsi storici. È ancora una volta la Storia a farsi protagonista assoluta della narrazione dei norvegesi, e ancora Essa si mescola alle melodie, si fa tutt’uno, spicca il balzo verso il domani, e come per incanto si ritrova nel passato. Un passato fatto di synth e strumenti che non sembrano reali, compatti al punto di tramutarsi semplicemente in tanti piccoli film, diventano qualcosa da raccontare.

È un tenue lucore quello che si innalza nelle nebbie di un disco che pare un abisso morbido, urgente nella durata quanto profondo nelle intenzioni. Fa male il pianoforte che lambisce A Thousand Cuts, stretta tra sesso e morte, bagnate da un mare crudele e freddo che rotola sulle passioni; Machine Guns And Peacock Feathers palpita tra le ceneri di una Bibbia e dei suoi racconti che diventano ritornelli fatti di immensità, persi tra le malattie dell’era moderna elencati sulle ali del soul; ballando in una chiesa in fiamme mentre fuori risuona One Last Dance, mentre all’intelaiatura si uniscono i filamenti di chitarra di Fennesz, maestro indiscusso dell’atmosfera.

Sebbene la sacralità avvolga l’intero lavoro, non c’è nulla di salvifico qui, come non ci fu per i Davidiani di Waco, Texas, del cui giudizio si curarono gli Uomini di Legge, e Apocalypse 1993 è un tagliente rasoio funk che guarda ad un Paradiso che brucia, senza Santi né Predicatori; Nostalgia e Russian Doll sono lo sguardo che si posa lacrimevole su una cassetta riavvolta verso ieri, in quell’epoca estinta, l’epoca in cui gli Ulver sembrano trovarsi a loro agio come mai lo sono stati nella loro carriera.

Congedarsi è difficile, quando il cuore brucia di vulnerabilità, ma è necessario. Riavvolgiamo il nastro, riascoltiamo, andiamo avanti.

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