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Imperial Triumphant – Alphaville

2020 - Century Media
avantgarde black metal

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Tracklist

1. Rotted Futures
2. Excelsior
3. City Swine
4. Atomic Age
5. Transmission To Mercury
6. Alphaville
7. The Greater Good
8. Experiment (Voivod)
9. Happy Home (The Residents)


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Nella New York gentrificata del 2020 c’è ancora quella vena infetta che spinge gli artisti a radicalizzare il proprio percorso, ed è proprio in questo labirinto, ancor più sotterraneo di prima, se possibile, che prendono forma gli incubi degli Imperial Triumphant, incubi metropolitani che si infiltrano sottopelle e fanno male, ci tengono svegli notte e giorno (d’altronde è la Città che non dorme mai) e che ci ricordano che non siamo al sicuro nemmeno quando ci rifugiamo sotto le coltri, al caldo, ma mai al riparo dal mondo là fuori. Accade ancora con “Alphaville”, un album che pare sospeso nell’atemporalità, nella paura del futuro, con uno sguardo ad un passato in cui la distopia ha gettato le sue basi, un racconto ucronico che ucronia non è. È vero. È qui. Non ci lascia scampo.

Se fino a una decina d’anni fa l’avanguardia ancora imperversava, oggi che una coltre fredda è calata sull’interesse di un grande pubblico che forse così grande non era, il trio non si è dato per vinto, continuando a sperimentare, non arrendendosi all’appiattimento della musica altra. Se siete orfani degli Sleepytime Gorilla Museum e dei Maudlin Of The Well, se Kayo Dot e Liturgy non vi bastano e se siete adepti di John Zorn dal dì che fu, “Alphaville” è la vostra ancora di salvezza, seppur illusoria, perché aggrappandovici vi scorticherete le mani. Kenny Grohowski (che alla corte di Zorn c’è stato sul serio), Steve Blanco e Zachary Ilya Ezrin sorridono dietro le loro maschere rituali e chiamano a raduno i padri del disastro Colin Marston e Trey Spruance per supervisionare il futuro che in poco meno di sette tracce riescono ad evocare, senza porsi alcun limite.

Il black metal è una base d’appoggio, una scialuppa che porta all’approdo di una furia iconica, fatta di rumore mostruoso, ingigantito dall’elettricità che divelge e squarta. Come fosse un flusso di coscienza di un androide gargantuesco, le voci disumane di demoni baritonali si innalzano al cielo, sopra i tetti dei grattacieli, e si insinuano nei cuori e li frantumano. Non c’è pace e l’irrequietezza fa da padrona, le melodie sono aspre, le sezioni ritmiche disperazione all’apice del dolore fisico (il basso di Blanco fa rizzare i peli sulla nuca), la free form una serva fedele che trasporta le idee pre-studio e che si trasformano man mano, l’inconsapevolezza di quello che accade mentre si vive e si suona prendono il posto di guida. Ogni parola è dosata, ogni racconto è terrificante, ogni denuncia inquisisce e si erge al di sopra di tutto, piegandosi al male, rendendolo reale più di quanto non sia. E quando la band tributa il proprio retaggio rendendo grazie a Voivod e The Residents con due cover magnifiche (Experiment e Happy Home), lo fa come si i brani fossero loro, li tramuta impiantandoseli dritti nel codice genetico.

Violenza e acciaio, tempra del divino e mostro tra i mostri, ma i Nostri non sono soli, arrivano i rinforzi nelle figure di Tomas Haake, che se a casa sua in quel di Meshuggaville è freddo come un ghiacciaio, qui porta il calore delle taiko drums – un goccio di folklore al di là dell’Oceano in direzione Sol Levante – e arricchisce di ritmi forsennati il già folle viaggio a rotta di collo verso le viscere della città. Le voci esterne al gruppo sono dosate così bene da integrarsi alla perfezione, così Yoshiko Ohara (ex dei folli Bloody Panda), Andromeda Anarchia e Sarai Chrzanowski diventano fantasmi tangibili che infestano le arcigne digressioni black, urla nell’oscurità, power up di un potere già abbastanza incontrollabile.

Anche quando il jazz si appropria delle mani del trio il terrore non diminuisce, incrementa il proprio furore attraverso respiri mozzati in un pianoforte ed un trombone dal gusto acre, figli di un passato che brucia ancora sotto le insegne delle nuove attività aliene che rovinano il viso spettrale di una Signora di vetro e cemento che è ormai è solo un ricordo. Bello. Spaventoso. Come “Alphaville”.

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