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“Verdena”, democrazia di fine millennio

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Il 1999 mi riporta ai miei 18 anni. La patente, la maturità, votare per la prima volta, la musica. Sotto quest’ultimo aspetto, in una quinta ragioneria di fine anni ’90 c’era spazio per diverse cose: le boyband, il melodico italiano, i primi vagiti del rap nostrano e ciò che io amavo chiamare “il sottobosco”. Roba conosciuta (e amata) da pochi eletti, gente con stomaco e orecchie abbastanza duri da resistere almeno tre minuti all’ascolto di un pezzo fuori dai canoni tipici.

Nel bel mezzo del sottobosco c’erano i Prodigy: The fat of the land è stato uno dei primi dischi che ho acquistato, e se ancora oggi a distanza di più di 20 anni leggo i titoli dei pezzi e ricordo a memoria ogni singolo passaggio, forse vuol dire che il numero totale di ascolti è composto da almeno sei cifre. Di quel disco ricordo molto bene Smack my bitch up, il cui video così trasgressivo, scorretto, sessista e introvabile mi faceva mandare in tilt il telecomando, tanto ossessivo era lo zapping alla ricerca del canale che lo trasmetteva.

Ad un certo punto lo trovo, o meglio credo di averlo trovato: inquadratura in soggettiva, immagini sfocate, ambientazioni luride… “ma quelli non sono i Prodigy!”, penso tra me. “E cantano pure in italiano… ma che sfigati!”. Poi un lampo, quella lampadina che si accende nel cervello – evento raro nel mio caso – e innesca una voce che mi dice: “Aspetta, prova ad ascoltarli”.

Ecco, così ho scoperto i Verdena. Valvonauta è stato l’inizio di un interesse rimasto intatto per due decenni: appena i tre ragazzi di Bergamo escono con qualcosa di nuovo mi fermo subito ad ascoltare, peraltro rarissime sono state le delusioni.

Nel corso di quell’autunno di fine millennio, in qualche modo riuscii a venire in possesso dell’omonimo disco, e lentamente ma in modo inesorabile mi innamorai di tutte le canzoni. Poco mi interessava il paragone con i Nirvana, che detto tra noi mi stavano anche abbastanza antipatici: mi innamorai dei Verdena perché in quel momento – e in molti altri a venire – raccontavano i miei stati d’animo, davano un volto e una didascalia alle mie emozioni.

In Vera, Viba, Bambina in nero, L’infinita gioia di Henry Bahus c’era gioia, tormento, illusioni e delusioni, voglia di vivere e di scappare via. C’era il mio essere e il mio interagire con il mondo. Merito di Alberto Ferrari, voce graffiata e chitarra tagliente; di suo fratello Luca, batteria alla Dave Grohl in un periodo in cui l’ex drummer della defunta band di Kurt Cobain non voleva più saperne di tamburi e rullanti, aprendo con i Foo Fighters un nuovo capitolo della storia del rock. Merito di Roberta Sammarelli, che “a cosa serve il basso in un gruppo che fa tutto sto casino?”, “Non lo so, ma lei è troppo bella e là in mezzo ci sta da dio!”.

La cosa più emozionante di “Verdena”, ciò che ancora lo rende argomento di discussione tra noi diciottenni del ’99, è il suo essere così musicalmente democratico. I testi svagati ed ermetici facevano sì che ciascuno ne traesse un suo significato, una storia diversa, uno spunto di riflessione sempre nuovo. Ecco perché ai coretti delle nostre compagne illuminate dai Backstreet Boys di “Everybody… yeeeh!”, noi, gli amanti del sottobosco, abbiamo sempre risposto “Sto bene se tu non ci sei!”

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