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“At Action Park”, gli Shellac e l’alienazione digitale degli anni Novanta

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Non potrei quantificare la stima ed il rispetto che provo per Steve Albini. Non c’è singola persona che più di lui abbia incarnato un’ideale, uno stile musicale e non solo. Nessuno come lui ha inteso la musica come mezzo “ricreativo”, oltre che artistico ed espiatorio. Aveva qualcosa da dire e lo ha fatto, nella maniera più pura (ed originale) possibile. Steve Albini è probabilmente l’artista che più di tutti è riuscito a dare un imprinting alle sue produzioni, prendendo un genere viscerale come l’hardcore-punk e aggiungergli tre livelli in più di alienazione: Big Black, Rapeman e Shellac (che poi ognuno di loro, ne aggiunge altri). Il terzo livello rappresenta la punta di diamante della produzione di Albini che dopo due progetti uno diverso dall’altro, con album dello stesso diverso dagli altri, è riuscito nuovamente a dare il suo significato di alienazione. Per quanto il mio cuore batta per i Rapeman, la caratura degli Shellac non può rendere questi ultimi il capitolo più incredibile della produzione Albiniana.

Vi posso garantire che è un’affermazione davvero forte per me, perché la regola del chiudi gli occhi e scegli rimane la più importante, ma appena li apro penso quanto sia incredibile il fatto che Albini sia riuscito a dare un nuovo messaggio e piazzare l’alienazione negli anni ‘90. A differenza dei precedenti progetti non ci sono (solo) sfuriate ossessive dotati di un’intensità che pochi possono invidiare, paradossalmente c’è una precisione che pensare potesse essere inserita in un contesto hardcore, sembrava impossibile. Eppure con gli Shellac ci è riuscito, mantenendo intatta la famosa visceralità con l’aggiunta di un sound stavolta asettico, quadrato, mathematico.

Pensare poi che “At Action Park” è il primo album del nuovo progetto, nemmeno il tempo dei convenevoli che ci troviamo un calcio nelle gengive. Sapete, magari appena si avvia un nuovo gruppo si cerca di trovare la propria dimensione, sound e via dicendo, oppure come nel caso di Albini di proseguire quello che già si era iniziato. Una sorta di continuità c’era tra Big Black e Rapeman, non poteva ripresentarsi di nuovo. Ma di cosa stiamo parlando, continuità, riflessioni, Albini sicuramente non avrà pensato a tutto questo, semplicemente preso una chitarra del cazzo e buttato giù, magari si dedicava alle riflessioni per il suo lavoro da ingegnere del suono. E pensare che dopo quindici anni di lavoro tra musicista e produttore sia riuscito nuovamente a sconvolgere, è un qualcosa appunto, sconvolgente.

Che poi lo sfondo di “At Action Park” sembra richiamare quella che effettivamente sarà l’alienazione del nostro secolo: fredda, matematica, digitale. Con Big Black e Rapeman ci si perdeva in un mondo indefinito, qui fin troppo bene sappiamo qual è e nonostante questo non riusciamo a trovarci anzi, il disagio sembra sia cresciuto. I riff hardcore noise sono sempre stati ossessivi e monotoni, solo che si perdevano nel miasma di distorsioni; in “At Action Park” altrettanto, con la “leggera” differenza che di perdersi non ne vogliono proprio sapere.

Steve Albini è un terremoto, lo è sempre stato. È una fucina interminabile di energia ed “At Action Park” è il prodotto degli ultimi venti/trent’anni che più riesce ad offrirne.

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