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Back In Time

“I See A Darkness”, rifugio e cordoglio di Bonnie “Prince” Billy

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Già nelle precedenti incarnazioni (Palace, Palace Brothers, Palace Songs) Will Oldham era sembrato il più triste tra i cantautori tristi, ma qua addirittura sembrava cantare con un pugnale conficcato nel cuore. Bonnie “Prince” Billy era la nuova maschera col quale presentava al mondo un disco che avrebbe fatto dell’oscurità uno strano genere di conforto.

I See A Darkness” suonava come un improbabile incrocio tra Nick Drake e Townes Van Zandt e, nonostante l’aria da esequie, ti tirava dentro le canzoni come fosse Berlin di Lou Reed. Cos’altro c’era da aspettarsi da uno che aveva aperto un precedente disco con una cosa tipo “….quando non hai nessuno, nessuno può ferirti…”? Erano canzoni di morte e desiderio, di passione ed orrore, di desolazione e tradimento, e correvano incontro all’abisso come fosse qualcosa di attraente.

Per Bonnie “Prince” Billy, il buio portava cordoglio e offriva un rifugio, e la solitudine era un prezzo da pagare.Inaugurava l’album il valzer malato e solenne di A Minor Place, una dolce passeggiata sul precipizio della depressione col sottofondo di una melodia che per un attimo smentiva la cupezza della copertina. Will Oldham, certamente in maniera involontaria, stava stabilendo una qualche specie di standard per la nuova generazione di cantautori folk e qualcosa, e allo stesso tempo aggiungeva un classico moderno al grande romanzo della canzone tradizionale americana, quella che parte dai monti Appalachi per arrivare alla Duluth di Dylan e dei Low, passando per gli Everly Brothers, The Band e Leonard Cohen.

Col tempo Will Oldham avrebbe perfezionato l’arte di essere Bonnie “Prince” Billy (“The Letting Go” e “Master And Everyone” le cose migliori), ma una collezione di ballate così emotivamente persuasive non si sarebbe più ascoltata. Per quanto dimesse e spoglie, le canzoni di “I See A Darkness” non rinunciavano mai ad un minimo di misteriosa eleganza, e sebbene Oldham si concentrasse particolarmente sulla sua personale forma oscura di poesia, la musica raramente andava in bianco.

Nella gotica Death To Everyone, e in Another Day Full Of Dread, il Principe s’arrendeva all’inevitabilità della morte guardandola sarcasticamente dritto negli occhi, senza mai abbassare lo sguardo, e nel country nebbioso di Nomadic Revery (All Around) più che cantare singhiozzava, e il tutto era reso ancora più angosciante dagli ululati in stile che spuntavano dalla notte. Madeleine-Mary alzava la polvere e il volume delle chitarre, mentre in Song For The New Breed metteva assieme Neil Young e il post-rock (a proposito: Oldham era amico degli Slint, e ne aveva fotografato la copertina per “Spiderland“). Persino quando le melodie si facevano più ariose, magari Today I Was A Devil One, la voce restava fragile, anche se in fondo aveva un qualcosa di magico e potente.

Le tenebre avvolgevano Knockturne e Black, ma dal buio Will Oldham estraeva l’ode maestosa e struggente all’amicizia di I See A Darkness, una canzone che qualche mese dopo Johnny Cash avrebbe consegnato definitivamente all’immortalità rivedendola nel suo “American III: Solitary Man“, mettendola assieme a The Mercy Seat di Nick Cave e One degli U2. Per via di una voce sul punto di spezzarsi per sempre, la versione di mister “Hello, I’m Johnny Cash” era ancora più drammatica e disperata, quasi devastante, l’ultimo desiderio di un condannato a morte.

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