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“2000 Years Of Human Error”, l’assalto dei Godhead al vagone dell’industrial rock

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Sembra davvero siano trascorsi duemila anni dall’uscita di “2000 Years Of Human Error”, l’album che regalò agli statunitensi Godhead i proverbiali quindici minuti di celebrità nell’affollato scenario alternative metal di inizio millennio. Purtroppo per la band del buon Jason C. Miller, oggi questo disco viene ricordato soprattutto per essere stato l’unico full length – tralasciando la colonna sonora del seguito di “The Blair Witch Project” – mai pubblicato dalla Posthuman Records, piccola label dall’esistenza effimera fondata nientepopodimeno che da Marilyn Manson.

Con il benestare di un Reverendo ancora sulla cresta dell’onda, i quattro di Washington D.C. tentarono l’impossibile: l’assalto al vagone dell’industrial rock, all’epoca in piena corsa. A dar loro una mano, una serie di ospiti di un certo peso: oltre a Twiggy Ramirez – che troviamo nella bellezza di tre tracce – e a Reeves Gabrels (attuale chitarrista dei Cure, ma per lunghissimo tempo anche collaboratore di David Bowie), arrivò a scomodarsi persino lo stesso autore di “Antichrist Superstar” e “Mechanical Animals”. È sua la voce in Break You Down, un ottimo pestone cantato in duetto con Miller e sfacciatamente calcato sul modello dei Ministry.

Con amici di tale livello ad aiutare, il fallimento sembrava essere fuori discussione. Eppure, nonostante le centomila copie vendute in patria e una partecipazione all’Ozzfest, i Godhead non sono mai riusciti a conquistarsi realmente un posto al sole. Ed è un vero peccato perché, nonostante qualche vistoso difetto e svariati passaggi a vuoto, “2000 Years Of Human Error” è un album che merita grosse attenzioni se si è fan del genere.

Le sonorità tipicamente industrial proposte dal gruppo, per quanto non invecchiate benissimo, continuano a sorprendere per profondità e ricchezza. Innumerevoli influenze diverse e una certa dose di creatività caratterizzano undici brani dai colori cangianti, originali nel modo in cui riescono a interpretare le lezioni – facilmente riconoscibili, va detto – degli artisti presi a riferimento.

I ritmi sintetici e reznoriani di The Reckoning e Inside You non cozzano con lo stile languido ma raffinato di una Tired Old Man o di una I Hate Today, così come le sporchissime sfumature trip hop di Penetrate e hip hop di Backstander non sfigurano se confrontate con i momenti più tosti dell’opera, ovvero quelli in cui a farla da padrone sono le frastornanti chitarre di Mike Miller (Sinking, l’energica title track e l’ultra-mansoniana I Sell Society).

La forte vena melodica dei Godhead permette alle canzoni di “2000 Years Of Human Error” di avere alcuni tra i ritornelli più orecchiabili dell’alt metal anni zero, costruiti in maniera impeccabile e con l’evidente obiettivo di conquistare l’heavy rotation dei network radiofonici del settore. Il lavoro tuttavia è abbastanza complesso; a volte addirittura faticoso nel suo frequente ricorso a ridondanti elementi elettronici. Certe velleità new wave forse potevano essere evitate; l’album ne avrebbe giovato in termini di incisività e immediatezza

Fortunatamente, a differenza di tantissimi colleghi loro contemporanei, i Godhead preferirono guardare ai ‘60s e non agli ‘80s per l’immancabile cover: il rifacimento di Eleanor Rigby dei Beatles suona tanto assurdo quanto stranamente convincente. Un buon motivo in più per andarsi a recuperare un disco che di “errori umani”, in fin dei conti, non ne contiene poi moltissimi.

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