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Back In Time

“The Smiths”, molto più di un disco

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Morrissey era il poeta  del tormento e della solitudine, e con la struggente bellezza delle canzoni degli Smiths offrì un porto emotivo per tutte le giovani anime in fuga dalla desolazione esistenziale nella quale affogava l’Inghilterra  thatcherista dei primi anni ottanta. Steven Patrick Morrissey aveva trascorso la sua prima vita nella solitudine affollata di una cameretta, a coltivare il vizio della malinconia e il culto per Oscar Wilde, Shakespeare, James Dean, le perversioni punk dei New York Dolls e il pop scalzo della divetta Sandie Shaw. Era un timido ribelle in pantofole, e come autore divenne presto il più romantico tra i cinici e il più cinico tra i romantici.

Quando alla sua porta bussò Johnny Marr, un giovane chitarrista di ritorno da un provino col Manchester City, non ci mise molto ad accogliere l’invito e formare una band. Johnny Marr era la spalla perfetta per dare un suono alla tristezza da ragazzina tradita dei testi di Morrissey: suonava leggero come una farfalla e potente come il gancio sinistro di Joe Frazier, e fu sicuramente uno dei più grandi architetti di melodie della storia del rock’n’roll. Amava le produzioni di Phil Spector, e andò a prendersi uno stile all’incrocio tra Richard LLoyd dei Television, i Love di Arthur Lee e Roger McGuinn dei Byrds, e quando sfoderava la Rickembacker  faceva affacciare gli angeli dalle nuvole .Johnny Marr era quello che alzava le tapparelle per far entrare il sole e riscaldare le canzoni umide di Morrissey. “The Smiths” arrivò anticipato da attese morbose e torbide polemiche, e fu subito il nuovo fuoco attorno al quale sedersi.

Reel Around The Fountain era una meravigliosa ballata pop da cielo grigio e foglie morte, e la voce vellutata e ingannevolmente svogliata di Morrissey cantava qualcosa che aveva a che fare con la perdita dell’innocenza, anche se in realtà gli Smiths lasciavano sempre aperta la finestra dell’ambiguità. Nostalgicamente citazionisti fin dalle splendide copertine di singoli ed album, gli Smiths presentarono il principesco pop’n’roll di This Charming Man a Top Of The Pops, con Morrissey in camicia da donna, un mazzo di gladioli in mano e un ciuffo che stava già diventando l’equivalente dei caschetti dei Beatles negli anni sessanta.

La chitarra dorata di Marr ricacciava indietro l’ombra lunga del post-punk e del shynt pop, il bassista Andy Rouke e il batterista Mick Joyce non sprecavano una nota, e Moz ci metteva la dolorosa tenerezza di ballate che citavano Oscar Wilde, Shelagh Delaney, Leonard Cohen, il Vangelo e l’attrice Viv Nicholson (…” Sotto il ponte di ferro ci baciavamo, ed anche se finivo con l’avere le labbra indolenzite, non era più come ai vecchi tempi….”). In Miserabile Lie, un pezzo che sbatteva la porta della felicità evocando un amore impossibile, Morrissey sfoggiava un falsetto da manicomio, e la band s’attaccava alla sua voce per resuscitare vecchie passioni punk. Pretty Girls Make Graves aveva il passo spedito di chi fugge da un dolore e usava l’ironia per asciugare le lacrime.

Nei dischi successivi Morrissey sarebbe poi divenuto l’apostolo del vegetarismo e il più feroce tra i fustigatori della deriva morale e politica britannica (dalla famiglia reale in giù), ma intanto qua si compiaceva della proprie insicurezze fino all’autocommiserazione. Ci pensava Johnny Marr e il suo jingle jangle a tirare su il morale di canzoni intime ed introverse: Hand In Glove aveva un’armonica disperata e una storia d’addii e solitudine da raccontare, come pure What Difference Does It Make? (“…il diavolo troverà lavoro per le mani pigre…”).

Perlopiù, “The Smiths” frugava tra le pagine del diario privato di Morrissey, con l’eccezione di Suffer Little Children, che rievocava la storia terribile di alcuni bambini rapiti, uccisi e seppelliti nelle brughiere a nord di Manchester da una coppia di folli. Sicuramente “The Smiths” non fu il loro album migliore (“The Queen Is The Dead” resta un capolavoro), ma per un paio di generazioni questo fu più di un disco. Molto, molto di più.

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