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Retrospettive

Abbiamo perso tutti: Pac Vs. Biggie, venticinque anni dopo

Il 13 Settembre 1996, sette colpi d’arma da fuoco mettevano la parola: “Fine”, alle travagliate vicende artistiche e personali di Tupac Amaru Shakur. Seguito appena sei mesi dopo, come arcinoto, dal presunto rivale Christopher Wallace. Presunto perché dai, dei loro dissapori ve ne hanno parlato al bar, dopo un bicchiere di troppo? No: ne abbiamo sempre letto su riviste, sentito parlare alla TV o peggio ancora in rete, tanti cari saluti all’attendibilità. Per quanto ne potremo mai sapere, il violento beef che così tanta attenzione riscosse durante gli ultimi mesi delle loro vite, poteva essere stato architettato ad arte a scopi promozionali. Di sicuro da quel punto di vista funzionò a meraviglia: l’esplosione della faida non solo fece decollare la corsa ad accaparrarsi una copia delle loro più recenti release, permise ai rispettivi comprimari di affacciarsi sul mercato e mettersi in tasca un po’ di banconote, solo in virtù del fatto facessero comunella “coi più tosti in circolazione”. L’incalcolabile numero di saggi e documentari a riguardo usciti da allora, rasenta la necrofilia. Mai quanto il susseguirsi dei loro lavori postumi, comunque. Il pubblico reclama e l’industria si prodiga per soddisfarlo, c’è poco di cui lamentarsi e ancor meno da fare. 

L’alone d’inspiegabile che circonda da sempre questa storia, ha sicuramente contribuito a rendere i due soggetti praticamente i rapper per antonomasia. Fermarsi a quello significa però tacere di due penne ispiratissime, in grado di imbastire con incredibile teatralità e istintivo talento musicale, la narrazione del proprio personaggio. Passando senza soluzione di continuità dalla farsa grottesca alla tragedia, mai fuori posto in completo d’alta sartoria, né con l’ultimo ritrovato della pacchianeria contemporanea addosso. Definirli controversi, pare quasi riduttivo. Chi nega si debba a loro più che a chiunque altro il passaggio del rap da espressione di una minoranza a colonna portante del business dell’intrattenimento, mente sapendo di mentire. O è semplicemente disinformato o in malafede. L’ha forse fatto riscoprire Afrika Bambaataa l’amore per il funk e il soul a una generazione di afroamericani, che rischiava seriamente di rimanere in blocco a fare la schiuma davanti a BET?

Le analisi a posteriori interessano relativamente e finiscono, quasi inevitabilmente, per lasciare il tempo che trovano. I dischi che tanta fortuna/sfortuna portarono ai rispettivi autori invece, sono lì da un quarto di secolo e continuano a macinare numeri. Icone sempreverdi, popstar a tutti gli effetti. Inutile soffermarsi a cercare di comprenderne i motivi. Facciamo invece una cosa, oserei dire, rivoluzionaria: parliamo di musica. Vi va?

“Me Against The World” & “Ready To Die”

Mentre 2Pac si trovava dietro le sbarre per un’accusa di violenza sessuale, risultata sempre molto sospetta ma mai formalmente caduta, “Me Against The World” esordiva nella classifica di Billboard sbalzando Bruce Springsteen dalla vetta. Segnale inequivocabile il sentire popolare stesse cambiando. Permeato di un lirismo e una schiettezza con pochissimi competitori pure per il 1995, l’auto affermazione e il risentimento nei confronti dei propri nemici ne sono protagonisti indiscutibili. Non stupisce tutto venga tenuto sotto anabolizzanti, la cosa interessante è che vale anche per i momenti più intimi, delicati, riflessivi e poetici. Ce ne sono parecchi, ci vogliono l’orecchio e l’inglese allenati però. Provate voi a scendere in strada a recitare la parte del profeta, poi mi farete sapere quanti ne avete convinti a seguirvi. Isaac Hayes, Minnie Riperton, Stevie Wonder, Betty Wright, gli Zapp di Roger Troutman, ritrovano freschezza e attualità, campionati e sottoposti ai giovani di due-tre generazioni dopo. Niente di meglio per affrancarli dalla polvere dei decenni, checché se ne dica. Vecchio e nuovo sono concetti irrilevanti in questa sede, il passato non passa mai e il futuro è sempre già cominciato. 

All’angolo destro del ring, Biggie Smalls si preparava al debutto in pompa magna. Storyteller impareggiabile non solo di sé stesso, anche dell’umanità perennemente impegnata ad arrabattarsi intorno a lui. Una verve incontenibile e poi così, di punto in bianco, ci si para davanti una sorta di cupo presentimento di predestinazione alla disgrazia. Il titolo dice già tutto. Quanto stile e carisma ci volevano per non far stridere l’accostamento delle più vivide cronache dei bassifondi, al più melenso RnB mai sentito? Un silos di ironia e spacconate, mano nella mano con un’attitudine al melodramma degna di un tenore. Curtis Mayfield, gli Isley Brothers, Miles Davis, Larry Graham, non avrebbero davvero potuto puntare su un cavallo migliore per riportare in auge il proprio lascito. Così come Sean Combs aka Puff Daddy per rilanciare una carriera che nel ’93, aveva già subito una pesante battuta d’arresto. Infatti di lui chi si ricorderà più, quando avrà restituito l’anima a chi di dovere? 

Denominatore comune di entrambe le uscite, sono le produzioni grondanti lipidi a firma Easy Mo’ Bee, di cui “Ready To Die” si avvale per addirittura un terzo della propria durata. In giro in pratica da quando qualcuno a un party, prese il microfono e disse a tutti: “Ehi, ma lo sapete che niente niente, con questa faccenda del rap potremmo anche fare dei soldi?!”. In precedenza scelto da Mr. Davis in persona per dirigere i lavori dietro “Doo-Bop”, ultimo album concepito dal Principe delle Tenebre ma di cui purtroppo, non fece in tempo a vedere il completamento. Un curriculum invidiabile ma di cui non si parla quasi mai, nemmeno in patria. Anche questa storia che il nome di chi rima finisca sempre per oscurare quello di chi ci mette i suoni, ha francamente rotto i così detti. 

(c) Michael Benabib

“Alla Eyez On Me” & “Life After Death”

Uscito di galera, Tupac ricominciò a scrivere, scrivere e scrivere. Una quantità mastodontica di materiale di cui infatti, a intervalli più o meno regolari, continuano a uscire estratti indipendentemente dalla qualità. Troppa roba per un disco solo e infatti, non gli restò che condensarne una parte nel primo doppio della storia del genere. Con così tante canzoni, i risultati saranno inevitabilmente altalenanti no? Eh, no. Ispirazione ai massimi storici, funk come se piovesse (oltre che tra i sample, George Clinton e Roger Troutman fanno capolino in carne, ossa e voce), l’incredibile alchimia creatasi in tempo zero con Dr. Dre e Snoop Dogg a incoronarlo ufficialmente nuovo Re della West Coast. Ricordiamo che sebbene assurto a simbolo di Los Angeles, anche lui era nato e cresciuto a New York. Di lì a poco, una notte di fine estate, tutto sarebbe stato affidato ai ricordi.

Se la concorrenza fa sul serio, non ci si può certo permettere di scherzare. Altrettanto prolisso, altrettanto celebrato, il funerale di B.I.G. lascia in realtà poco spazio al cordoglio e ci offre il destro per ballare e cantare come se nessuno ci stesse guardando. Pure alle 7:00 di un mattino nebbioso, su un autobus che avanza mestamente, per le statali della più infelice delle province padane. DJ Premier ci pettina a suon di batterie compresse e scratch, Puffy non prova nemmeno a elaborare qualcosa di proprio, limitandosi a pagare i diritti per l’utilizzo di brani riproposti paro paro a com’erano in origine. Da queste parti il passaggio dalla lista dei campionamenti a quella dei featuring spetta ad R.Kelly, che per l’occasione smette di orinare sulle tredicenni per venire a cantarci: “I’m fucking you toniiiiight!”. Quanto romanticismo.

Avremmo potuto soffermarci su quanto e come il rap sia radicalmente mutato da allora, sulle rime da antologia, dato che qui ve n’è sovrabbondanza, sulle comunque interessanti biografie dei due artisti, i retroscena della lavorazione e le tappe della diatriba. Ma perché mai avremmo dovuto? L’hanno fatto e continuano a farlo in così tanti che il culto di tali ingombranti figure, esagerato e reiterato ben oltre la nausea, ha quasi ottenuto la rimozione dello spessore delle loro opere dalla memoria collettiva. Allo stesso modo a porre l’attenzione su certe tracce a discapito di altre, pare veramente di consigliare la visione del monologo finale di Rutger Hauer, ignorando tutto il resto di “Blade Runner”. No, davvero: l’unico modo per assimilare a dovere dischi tanto seminali, figli di un’epoca dorata che no, non tornerà mai più e in un certo senso, è un bene sia così, è tuffarsi a capofitto o lasciare perdere.

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