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“Opiate”, viaggi psichedelici nell’oscuro universo della mente umana

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Era il 1992, in America impazzava il grunge dei Nirvana e il metal era dominato dal trash dei Big Four Metallica, Megadeth, Anthrax e Slayer; in quel momento dalla creatività esplosiva di Maynard James Keenan prendeva forma una delle band più innovative e rivoluzionarie degli ultimi trent’anni: i Tool proprio ventinove anni fa rilasciavano il loro primo EP, destinato ad aprire le porte ad una realtà musicale alternativa, caratterizzata da un metal psichedelico e onirico. “Opiate” (1992) è il punto di partenza contenente sei tracce, quattro registrate in studio e due live. 

La loro musica è incentrata su concept psicologici molto potenti che vanno a intaccare le parti più oscure e tormentate della mente umana, ammantando il tutto di una grottesca psichedelia. Il timbro stilistico della band presenta delle sessioni ritmiche che spingono su un basso molto pronunciato tra le dita di Paul D’Amour, sulla batteria aggressiva e dalla precisione infinitesimale dei colpi del monumentale Danny Carey e sull’intenso lavoro chitarristico di Adam Jones. Le potenzialità tecniche di questo gruppo sono state chiare da subito, nonostante le quattro tracce in studio si presentino grezze e ancora un po’ ruvide, dando solo l’antipasto del sound e della musicalità che raggiungeranno in futuro Keenan e soci. Il sound aggressivo e cupo va a sbattere prepotentemente sulla voce pulita del frontman, creando un perfetto paradosso sonoro e artistico. 

Il grunge si mixa con un aspro alternative rock sotto i colpi magistrali di Carey che, fin da questo EP di esordio sale in cattedra, mostrando una padronanza tecnica fuori dal comune. Il batterista americano dà particolare sfoggio delle sue peculiarità in brani come Part of me, aggressiva fin dall’attacco e arricchita di ritmiche forsennate meravigliosamente intrecciate con le quattro corde di D’Amour. Non c’è dubbio che il richiamo al grunge dei Melvins o dei primi Soundgarden sia presente, ma i Tool si spingono oltre, lanciandosi nei meandri di una sperimentazione più raffinata che tocca anche le tradizioni metal e hard rock, senza mai cadere in cliché scontati. 

(Photo by Tim Mosenfelder/Getty Images)

Hush, traccia grunge imperiosa e violenta, viene lacerata da un urlo iniziale di Keenan che sbatte in faccia il concept della completa autonomia intellettuale della band, contro ogni forma di bavaglio. Il riff di chitarra e la partitura di basso tessono una rete melodica soffocante, quasi a voler opprimere i perbenisti e ben pensanti tanto dediti a puntare il dito e al tappare la bocca con l’arma della censura. L’opener Sweat mantiene delle linee melodiche molto cupe con il basso di D’Amour a scolpire riff massacranti che sfoggiano sempre una chirurgica precisione, anche nelle più piccole variazioni. Part Of Me, vero e proprio arrembaggio al progressive, tira fuori tutto il potenziale e la tecnica sopraffina di Carey con ritmiche frenetiche e insospettabili che disorientano completamente. Il quadro viene arricchito con due tracce dal vivo, registrate la notte di capodanno del 1991: Cold And Ugly e Jerk-Off, sfuriate del più nerboruto grunge in dotazione alla band, che non aggiunge niente di nuovo sotto al sole, se non due prove tecniche a dimostrazione di quanto fossero già in grado di fare dal vivo. 

La traccia più innovativa del disco è la title track, inno contro il perbenismo e i miti religiosi che impregnano la cultura occidentale, nello specifico quella americana. Dopo un incipit di basso minimal, si apre un grunge più soft che permane fino allo sconvolgimento totale della traccia, attraverso cambi ritmici convulsivi che alternano mood soffocanti a linee melodiche più aperte e slanciate. Dopo un silenzio sordo di circa cinquanta secondi, arrivati al minuto 6:06, entra in scena la traccia fantasma: The Gaping Lotus Experience, proietta ad un finale cupo e psichedelico che mette il seme per ciò che sarà il futuro della musica di questa band. I frutti di questo psycho-rock fuso con le sonorità grunge, metal e sperimentali più selvagge, sono stati raccolti dalla band nei capolavori pubblicati successivamente: “Ænima” (1996), “Lateralus” (2001) e “10.000 Days” (2006). Dopo anni di trepidante attesa nel 2019 esce “Fear Inoculum“, opera magistrale della band che torna ad imporsi sulla scena musicale con una maturità melodica sopraffina, contenuti psichedelici, claustrofobici e concept studiati a regola d’arte, supportati dalla onnipresente arte grafica dell’artista Alex Grey. 

Keenan ha dimostrato negli anni di essere un artista di spessore elevatissimo, contornandosi di musicisti talentuosi, facendo diventare oro ogni sua collaborazione. Per esempio, le band da lui fondate Puscifer e A Perfect Circle, questi ultimi artefici di un album sensazionale “Eat The Elephant” (2018), dove solo in parte, emergono alcuni elementi similari alla filosofia dei Tool. Quando si parla di musica con questo potenziale, in grado di farti letteralmente viaggiare in universi psichedelici ed onirici di questo tipo, ci godiamo le prodezze di questa band, sperando di non dover attendere altri tredici anni per intraprendere un nuovo viaggio. 

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