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“Don Giovanni” di Lucio Battisti, una stupenda opera di passaggio

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Don Giovanni” è il primo di quello che poi sarebbe passato alla storia come il periodo “panelliano” di Lucio Battisti. Ossia, i 5 dischi del periodo in cui Lucio ha lavorato, fino alla sua morte prematura, sui testi del poeta romano Pasquale Panella. “Don Giovanni” fu anche l’ultimo dei dischi del nostro che raggiunse la testa delle classifiche. Sul momento, “Don Giovanni” scioccò il pubblico per i testi ma ebbe comunque una discreta accoglienza, risultando il terzo album più venduto dell’anno, quel che non si può soltanto spiegare con la lunga attesa: tre anni e mezzo dal precedente “E Già“. Il quale sì, delude come primo disco post-Mogol: i testi non sono né carne, né pesce e la musica non decolla mai veramente. Artisticamente e commercialmente, Don Giovanni” è una prova superiore.

Nel 1986, la gente compro’ il disco e Francesco De Gregori dichiarò il suo entusiasmo ma, in realtà, la critica dell’epoca non sapeva che pesci pigliare, spiazzata. Oggi, dei 5 dischi “bianchi” (come anche vengono chiamati per le copertine minimali), “Don Giovanni” viene spesso considerato il migliore, da pubblico e critica. Ma è un giudizio che non condividiamo. Come i fatti dimostreranno, Lucio aveva in serbo ben altre sorprese per l’Italia. Non a caso, in realtà, la copertina è beige e non ancora bianca: siamo ancora in transizione, rispetto al passato.

Il problema nell’analizzare “Don Giovanni“, ci pare, consiste proprio nelle comparazioni con il passato. Il confronto con ciò che Lucio è stato prima: le Dieci Ragazze, La Canzone del Sole, Il Mio Canto Libero, ecc…, rende impossibile comprendere il disco del 1986 e anche i successivi 4 dove andò a radicalizzare con Panella quella ricerca avanguardistica che in “Don Giovanni” accenna solamente.

Ci sembra quindi utile, per potere affrontare questa opera, a 35 anni dalla sua uscita, togliere subito di mezzo il “problema Panella”. Un problema perché, se ci pensate, quando si pensa a questi 5 dischi si pensa a questi testi “assurdi” e “incomprensibili” che disorientano l’ascoltatore abituato a ben altro da Mogol e rendono radicale il confronto. Il rigetto per i testi porta al rigetto per l’intera opera. Paradossale, se si pensa che magari sono gli stessi italiani che idolatrano artisti anglofoni senza capire una mazza di quanto cantano. Evidentemente, meglio non capire niente per la barriera linguistica che non capire niente perché non e’ necessario capire. Forse sono solo i nostri complessi d’inferiorità che ci impediscono di riflettere sul fatto che Panella non può e non vuole pretendere di essere compreso:

Da un chilo di affetti un etto di marmellata
Se sbatti un addio c’esce un’omelette
Le cosce dorate van fritte
Coi sorrisi fai croquettes
E tu dici ancora che non parlo d’amore
(da Fatti un pianto)

Viene a volte il sospetto che il suo sia solo un cazzeggio per farci ridere, o prenderci in giro. Oppure semplicemente, e questa è la mia personale teoria, Panella vuole far cantare Battisti e basta. Con Panella, il percorso creativo si invertiva rispetto a Mogol: prima i testi e solo dopo, Lucio ci scriveva sopra la musica. Eppure, questi testi, nel loro ripetuto non-sense sono solo un pretesto. Anche se sono i testi a generare la musica, essi sono fatti per scomparire una volta creata la musica, in una perfetta ottica minimalista ed è così che v’invito a prenderli. Non che non ci piacciano, a me piacciono da morire. Ma una volta preso nota dei testi, sarebbe ora, dopo 35 anni, di parlare della musica. Se dei dischi bianchi cerchi analisi, online o nelle librerie, ne trovi parecchie che fanno l’esegesi dei testi, magnificandoli. Benissimo.

È la musica? Se ci fate caso, pochi parlano della musica che Lucio ha fatto dal 1986 al 1994, della quale “Don Giovanni” è solo la prima bellissima prova. Rispetto a “E’ Già“, troviamo meno elettronica. Troviamo archi, fiati, arpa, molta batteria acustica e molto pianoforte, suonati da musicisti stranieri a loro agio nel jazz (Equivoci amici) e nella classica (Le cose che pensano): due linguaggi che non erano estranei al Battisti degli anni ‘70. Troviamo melodie perfettamente degne del “periodo Mogol”, come nella title-track.

E son questi forse gli elementi che rendono questo disco più digeribile ai fan del Battisti classico, rispetto all’ulteriore minimalismo arrivato successivamente. Gli arrangiamenti, è stato notato, appaiono un po’ ripetitivi e robotici nel corso del disco. Ma non mancano anche lì i richiami a dischi come Una donna per amico o Una giornata uggiosa. Basta ascoltare, Che vita ha fatto, una canzone che potrebbe essere stata presa da uno di quei due dischi, se non fosse per il solito Panella. Anche vocalmente, è un Battisti in transizione quello del 1986. Ancora, a tratti, si sente quel pathos preso dal suo amato Otis Redding che ne contraddistingueva il cantato degli esordi. Ma certo, cantare

Seguir con gli occhi un airone sopra il fiume e poi
Ritrovarsi a volare
E sdraiarsi felice sopra l’erba ad ascoltare
Un sottile dispiacere
E di notte passare con lo sguardo la collina per scoprire
Dove il sole va a dormire
(da “Emozioni”, Battisti-Mogol, 1970)

non è lo stesso che cantare

La strada che curva
E l’insegna notturna
Un Tir che si ritira
Tutto il sole al Nadir
E alte a prua chiome d’albero
E zolle che non mi arenano
(da “Madre Pennuta”, Battisti-Panella, 1986)

Grazie a testi siffatti, in “Don Giovanni“, la voce di Battisti comincia a esplorare quella inespressività minimalista che s’imporrà negli ultimi anni.

Ma “Don Giovanni” è anche un disco degli anni ‘80. Un disco dove, appaiono elementi che sembrano presi di peso da un disco dei Talk Talk piuttosto che dei Duran Duran (Madre Pennuta). Battisti, per quel che poco che si sa o che si racconta, ascoltava di tutto e non mancava mai di tenersi aggiornato sui trend che venivano dal resto del mondo. E di sicuro si sente lungo gli oltre 25 anni della sua produzione.

Insomma, di Battisti e di tutta la sua produzione, da analizzarsi come una cosa unica dai ‘60 ai ‘90, sarebbe il caso di cominciare a parlare per quello che è: un genio e per quanto un genio ha alti e bassi, non può essere che il Battisti degli anni ‘60 e ‘70 sia un genio e quello degli anni ‘80 e ‘90 un demente. Un modo per superare questa dicotomia potrebbe proprio essere quello di ascoltare la musica dei 5 dischi “bianchi”, facendo finta che i testi siano in inglese e quindi la nostra comprensione NON è necessaria. Si scoprirà allora un filo evolutivo e coerente che va da 29 Settembre a Hegel.

Il filo dispiegato da un’artista che era sempre avanti due passi rispetto ai suoi connazionali. Un artista autenticamente “progressivo”, a tratti avanguardistico, ma sempre coerente con la sua missione di portare la musica agli umani e portare in Italia quello che non c’era prima di lui e che forse ancora non c’è: l’apertura mentale nell’arte. In questo filo evolutivo, “Don Giovanni” è un tassello importante, uno stupendo momento di transizione.

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