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Back In Time

“Up In It”: il grunge non viene dal nulla, gli Afghan Whigs sì

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Se si esclude un album uscito in 2000 copie e mai più ristampato, “Up In It” va considerato il primo LP degli Afghan Whigs. Tuttavia, non è certo il primo album che vi consigliamo di ascoltare nel caso che vi siate persi finora questo stupefacente gruppo. In tal caso, andatevi a leggere il “Back in Time” di Marzo relativo a “Black Love”, chiudetevi in casa una settimana (si fa per dire: siamo chiusi in casa da un anno…) con quei suoni e quelli di “Gentlemen” e solo poi gettatevi a caso sul resto della discografia delle parrucche afghane. Quando, inevitabilmente, sarete diventati fan sfegatati del gruppo, è il momento di indulgere con “Up In It”.

L’album uscì per la Sub Pop, etichetta centrale nella storia della musica per il suo ruolo nella scena grunge di Seattle e per avere pubblicato Nirvana e Soundgarden. Questa era la prima volta che pubblicava un disco di una band che non venisse dal nord-ovest degli Stati Uniti, bensì da Cincinnati, Ohio. Secondo qualcuno, si trattava della “prima indicazione che il grunge poteva venire dal nulla (cioè da Cincinnati)”. Eppure, “Up In It”, riascoltato oggi, nel giorno del suo trentunesimo compleanno, non è un disco grunge e, riascoltarlo, fa capire come gli Afghan Whigs, avevano ben poco dei gruppi grunge. C’è poco da fare: se non sei di Seattle, se non sei nato o cresciuto in quella collinosa e isolata enclave di poco più di mezzo milione di abitanti (nulla per una città statunitense), non suoni grunge, nemmeno se vuoi. Non sei sufficientemente intriso di quel sound specifico che ha reso famosa la città nella storia del rock e sei troppo esposto alle altre cose. Tutte quelle altre cose che appaiono in “Up In It”: il punk classico, il blues, l’hard rock, l’r&b, il southern rock.

Non è quindi “un altro disco grunge” o “un classico del grunge minore”. Se non per il tentativo del produttore di farlo suonare tale: Jack Endino, leggenda vivente di Seattle da trentacinque anni, che ha lavorato con i primi Nirvana di “Bleach”, con i primi Soundgarden di “Screaming Life”, con i Mudhoney e innumerevoli altri gruppi dell’underground del nord-ovest. Esordire con Sub Pop, a cura di Endino, dovette quindi sembrare la ricetta perfetta per cavalcare l’onda grunge che, nel 1990, stava per esplodere. Ma non funzionò. Come dimostra il raffronto proprio con “Black Love” e la sua produzione ben più lussuosa, il sound grezzo di Endino non rende giustizia agli Afghan Whigs. L’approccio lo-fi soffoca l’espressività vocale di Dulli che qui pare solo un punk senza voce. I riff di chitarra alla Rolling Stones rimangono schiacciati, senza respiro. Il basso di John Curley suona attufato e, troppo in risalto nel mix, strozza il sound complessivo della band.

Si racconta che quando Dulli andò all’università, si portò due poster dalla cameretta adolescenziale: gli Aerosmith e gli Earth Wind & Fire. Hard rock e r&b sono dunque le influenze che definiscono e faranno la grandezza nella storia degli Afghan Whigs, non i Ramones (sia detto con sacro rispetto) come potrebbe sembrare da alcune tracce di “Up In It”. Che poi sia colpa o meno del produttore, poco importa. Anche perché gli stessi Dulli e compagni, nel 1990, non sembrano avere le idee molto chiare sul sound che cercano. Amphetamines And Coffee sembra una roba dei Cheap Trick; Southpaw è punk classico con un assolo alla Jimmy Page; Son Of The South potrebbe essere una canzone dei Black Crowes; White Trash Party sembra una canzone degli Aerosmith suonata dai Sex Pistols. Il singolo che apre il disco, Retarded, potrebbe far pensare ai Whigs che saranno, se solo Endino non si fosse assicurato che il tutto suonasse come garage rock da quattro soldi.

Insomma, sempre con sacro rispetto per il produttore simbolo del grunge, sarà necessario che Dulli e Curley vadano loro in cabina di regia, come faranno dal successivo “Congregation”, perché nascano gli Afghan Whigs che conosciamo: lascivi, lussuriosi, funky, senza peli sulla lingua. Non che in “Up In It” manchi spietatezza lirica: “Gli piaceva baciare i ragazzi / Gli piaceva baciare le ragazze / Gli piaceva baciare tutti quelli che stanno nel mezzo / Strofinargli la lingua sulle gengive”. Ma è ancora grezza, se si compara con il dopo.

Up In It” è un’opera incompiuta, che regala senz’altro momenti ispirati che, riascoltati oggi fanno ben intuire la grandezza che sarebbe venuta dopo. Ma dubitiamo che l’ascoltatore del 1990 potesse non farsi distrarre dallo sforzo testardo della produzione di far suonare la band come i primi Soundgarden. In conclusione, si direbbe che no: il grunge non può “uscire dal nulla”, o da Cincinnati.

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