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Alan Vega – Mutator

2021 - Sacred Bones Records
avantgarde synth pop

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Tracklist

1. Trinity
2. Fist
3. Muscles
4. Samurai
5. Filthy
6. Nike Soldier
7. Psalm 68
8. Breathe


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Risentire la voce di Alan Vega è sempre un’esperienza deliziosamente ultraterrena. Se è vero che il suo corpo ha lasciato questo pianeta, dopo averlo scosso con la sua presenza diafana ma non meno ingombrante, un talento innato per l’obliquo e una sensibilità artistica che pochi altri possono dire di avere o aver avuto (comunque non al suo livello), il suo lascito è lungi dall’esaurirsi.

La discografia conosciuta dell’artista newyorkese è già di per sé pressapoco sterminata. Nei soli anni ’90 sono ben più di dieci gli album su cui Vega mette la firma, che siano suoi o di altri, che siano i Suicide, i Pan Sonic, Etant Donnes oppure i Mercury Rev, poco importa. Un fiume in piena, che di fermarsi non aveva alcuna intenzione. Questa storia, la storia di “Mutator”, inizia proprio a cavallo tra “Dujang Prang” e “2007”, perché è proprio nel tempo che intercorre tra i due album (più precisamente nel biennio ’95/’96) che Alan e la compagna Liz Lamere lavorano per incidere quello che dovrebbe essere l’anello di congiunzione tra il synth-pop pompato a mille del primo e le distruzioni elettroniche di fine millennio del secondo, che già vedeva almeno dieci anni nel futuro.

La cosa che stupisce di “Mutator”, invece che connessione, pare vivere al di fuori di quello specifico lasso di tempo, come se fosse proiettato troppo in là per poter uscire nel 1997. Se già “2007” era electro-futurismo, qui assistiamo ad una vera e propria preconizzazione di quel che avverrà/sta avvenendo. I suoni su cui Jared Artaud lavora e rende ancor più retro-moderni portano in dote quanto di contemporaneo musicisti come Ulver, Carpenter Brut, Cold Cave e Drab Majesty stanno producendo da qualche tempo a questa parte. Ognuno di loro, e questa è una certezza, ha nel cuore e nella mente il fautore dei Suicide, e questo disco sarebbe stato il primo a venir menzionato da ognuno di loro se fosse stato pubblicato a tempo debito.

Uscendo ora il risultato non cambia: Vega era un visionario e così sarebbe rimasto fino alla fine dei suoi giorni terreni e questa è l’ennesima riprova. L’oscurità illuminata al neon si fa via via più fitta, la voce di Alan è il perno su cui si muovono beat pulsanti: il lento trascinarsi di Muscles, le parole che si schiudono rabbiose e gutturali, versi bestiali che abradono; Fist e i suoi droni brillanti che sbattono sulle drum machine mentre il salmodiare evanescente di Alan Suicide si fa sempre più incorporeo, più che mai fisico nelle incursioni industrial di Filthy, il crocevia e tassello mancante in un mosaico che prevede Iggy Pop abbracciare Al Jourgensen; Nike Soldier sacrifica sull’altare di suoni maligni tutta la sua cifra art e delirante, in una danza rituale alla dea Vittoria, i soldati incolonnati e adoranti; dream pop trasparente come il cristallo, Samurai è ballad in odor di eternità, un addio che sa di promessa, shoegaze d’antan; sacro e profano si accoppiano in bella vista sotto i colpi sublunari che avvolgono Psalm 68, e l’eterno salmodiare qui manca, ma lo sentiamo scalciare dietro la strumentale, pronto a risalire in superficie.

La promessa di Sacred Bones è quella di un “Vega Vault project”, e la mia fame di nuovo materiale inedito, se sempre a questo livello, s’è fatta incontrollabile. Datemene ancora, vi prego.

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