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“Brothers”, il Blues povero e cool dei Black Keys

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Proprio pochi giorni fa è uscito il decimo album dei “The Black Keys”, “Delta Kream”, una raccolta di cover di classici Blues. Se ci raccontassero che Brothers”, uscito 11 anni fa oggi, era anche una raccolta di cover (in questo caso meno fedeli all’originale), potremmo crederci. Per “Delta Kream” vi rimandiamo alla nostra recensione, ma il punto che qui ci interessa è che tale album chiude un po’ il cerchio logico, per ora, della parabola musicale dei due dell’Ohio. Parabola cominciata nel 2002 con “The Big Come Up”, un acerbo ma valido tentativo di “punk blues” prodotto con pochi mezzi, che piacque più alla critica che al pubblico. Poi, nei successivi 8 anni, la lenta ascesa commerciale e artistica fino, appunto, a “Brothers”, che portò il successo planetario (multi-platino in vari paesi), ma anche il picco artistico della parabola della band.

Dopo, Auerbach e Carney, forse ubriacati dal successo, cominciarono a esplorare nuove strade e cercare nuove ispirazioni musicali da innestare su quelle degli inizi. I risultati furono ancora più notevoli commercialmente con il successivo “El Camino” (2011), disco che ancora ci piace. Lo stesso non possiamo dire delle due prove successive in cui la band, nel tentativo di spingersi oltre nell’esplorare nuove lande, si perde, senza nemmeno venire premiata dalle vendite in lento declino.

Restando a “Brothers”, c’è in questo disco una ispirazione ben precisa che si può rintracciare in un sottogenere del Blues, chiamato “Hill Country Blues” (HCB): artisti come Fred Mc Dowell, R.L. Burnside, Junior Kimbrough, che sono poi gli autori delle cover contenute in “Delta Kream”. È lo stesso Dan Auerbach a raccontare come passò gli anni dell’università: “Prendevo brutti voti e avrei dovuto studiare e invece ascoltavo la musica di Junior Kimbrough”. Akron in Ohio, che ha dato i natali ai due “Black Keys”, era conosciuta come “la capitale mondiale dei pneumatici”, ma alla fine del ventesimo secolo quell’industria era in crisi. Il pensiero che non valeva la pena studiare perché tanto non ci sarebbe stato un lavoro, convinse i due a mollare l’università e darsi alla musica. Scelta di cui il mondo non può che felicitarsi, perché oggi sarebbe un mondo senza “The Black Keys” e soprattutto senza “Brothers”.

Una caratteristica dell’HCB è l’importanza del groove e delle percussioni. Dopo la guerra civile, gli afro-americani si erano potuti riappropriare di alcune tradizioni delle terre d’origine e nelle case degli schiavi liberati si faceva musica usando sedie, lattine e bottiglie vuote. L’HCB non è la roba che Muddy Waters portò a Chicago (quello era il “Delta Blues” che nella metropoli muto’ in “Chicago Blues”) e che band come i Rolling Stones resero famosa anche presso i bianchi. Bensì, è il blues come rimase nel Missisippi e in particolare nella zona a est dell’autostrada I-55 (detta Hill Country), da distinguersi dalla zona del Delta che rimane ad ovest. Kimbrough e gli altri non ebbero dischi nelle classifiche, non andavano in tour e non suonavano in club e teatri (se non negli ultimi anni della loro vita), come i loro colleghi emigrati a nord. E’ una musica povera, perché povere, campagnole (country), erano le condizioni in cui vivevano, ancor più di quelle dei loro colleghi del Delta dove le terre erano più fertili; suonavano nelle feste domestiche e nei picnic, la domenica, mentre durante la settimana lavoravano i campi. È una musica basata su un groove ipnotico, come un ronzio, che non sembra andare mai da nessuna parte, ma rimane fermo su se stesso. Un suono sospeso e un po’ minaccioso: un suono che ti dice “potrei ucciderti proprio ora, bello, oppure potrei starmene qui buono tutta la notte e non ucciderti mai” (cit.). Per chi sa di teoria musicale: nell’HCB si insiste sulla tonica, piuttosto che girare anche sulla sub-dominante e la dominante (come nello schema classico del Blues a dodici battute e quindi del rock). Oppure, talora, le tracce del genere si fissano sulla sub-dominante. Insomma, armonia povera, sghemba e asimmetrica: ipnotica nel risultato.

Ora, tutte queste cose, se non ci fossero stati “The Black Keys” negli ultimi vent’anni, forse noi bianchi europei (e americani) non le saremmo mai venute a sapere, non ce ne saremmo mai interessati. Così come non avremmo saputo nulla di Muddy Waters senza i Rolling, o di Robert Johnson senza Eric Clapton, o di Son House senza i White Stripes. Già i primi dischi del duo di Akron, presentavano varie cover di Kimbrough e soci. Nel 2006, per cercare di colmare questo imperdonabile buco nella nostra cultura, visto che peraltro fin lì le cover non si distinguevano dalle nuove composizioni, pubblicarono un disco di sole cover di Kimbrough: “Chulahoma”. Ma furono in pochi ad accorgersene (posto 199 delle classifiche USA, non pervenuto in Europa).

Per attirare davvero la nostra attenzione, ci voleva “Brothers”: nient’altro che HCB reso magicamente “pop” e multi-platino. Ascolti il disco, dopo aver ascoltato “Chulahoma” e non ti capaciti bene cosa sia successo in pochi anni. Tutte canzoni originali, a firma AuerbachCarney. Il grosso dell’album fu registrato in 10 giorni d’isolamento al mitico Muscle Shoals Sound Studio, in Alabama, che negli anni ‘60 e ‘70 aveva visto alternarsi, tra gli altri, Aretha Franklin, i Rolling Stones, Wilson Pickett, Joe Cocker, Cat Stevens. Ma quando i Black Keys vi misero piede con il produttore Mark Neill, erano 30 anni che lì non si registrava più nulla e la struttura era priva di ogni equipaggiamento audio che la band dovette portarsi da casa. Inoltre, lo studio sorge nel mezzo del nulla e la sera nei dintorni non c’era altro da fare che ubriacarsi, attività a cui i nostri non si sottrassero. Una mattina arrivarono in studio e trovarono un clavicembalo. Quando chiesero che diavolo ci avrebbero dovuto fare, gli fu risposto che la notte prima avevano telefonato al proprio manager chiedendo di averne uno a disposizione, cosa di cui non avevano memoria.

I due amici, in quei giorni stavano sanando le ferite del traumatico divorzio di Carney dalla moglie, una relazione che aveva messo a dura prova la loro partnership umana e artistica, essendo la signora sempre stata indigesta a Auerbach. La prima canzone che registrarono fu Next Girl, che ha musicalmente la struttura di un classico HCB. Lavorare su una canzone che parlava di andare avanti alla “prossima ragazza” immediatamente migliorò l’umore del batterista e aprì la strada per delle session produttive. Il metodo sperimentato con questa canzone e che mantennero con le altre, fu di registrare prima di tutto una traccia di basso e batteria, piuttosto che chitarra e batteria, come il duo era abituato. Su questa traccia venivano poi aggiunte le sovraincisioni degli altri strumenti. Ciò contribuì a dare al disco un suono basato sulla sezione ritmica. Secondo Neill, l’enfasi sui bassi era dovuto anche all’acustica particolare del Muscle Shoals: “Nella sala controllo c’è un forte riflesso sulle frequenze medie e questo ti porta a mixare le cose in una certa maniera. Al punto che vai poi in macchina o riascolti in cuffia in Hotel e improvvisamente ti accorgi di aver fatto le cose diversamente da come pensavi. Ti accorgi che a causa di quella stanza le vecchie produzioni di quello studio sono mixate come erano, con la cassa e il basso ad alto volume e in evidenza. Ed eccomi, anni dopo a fare esattamente la stessa cosa”.

Quale che sia il motivo, il risultato finale e’ molto HCB: il groove innanzitutto. Si capisce fin dalla traccia iniziale: Everlasting Light procede con basso e batteria sparati come un trattore che schiaccia tutto. Spieghiamolo bene: “Brothers” è un disco per ballare fumati, blues psichedelico. Lasciandosi trasportare dalla sezione ritmica, fissandosi sulle chitarre acide che tagliano la musica come un’accetta e volando nell’intensità vocale che Auerbach qui offre. Certo, non siamo ai balli delle feste degli agricoltori afro-americani del Missisippi, le possibilità qui sono ben più vaste. Le tastiere sono un po’ dappertutto e dominano pezzi come The Only One o Too Afraid to Love You. Ecco che la chitarra di Auerbach usa effetti e distorsioni alla grande, come in She’s Long Gone. Ecco un omaggio a Ennio Morricone nel fischiettio che introduce Tighten Up (prodotta da Danger Mouse), mentre Carney picchia duro per evitare che ci distraiamo troppo dal groove. Cosa che sarebbe comunque impossibile con Howlin For You, introdotta da questo riff ipnotico di batteria che procede incessante per tutta la traccia, mentre Auerbach gioca con voce, chitarra e sintetizzatori. Impossibile stare fermi. Come con Sinister Kid peraltro: la ascolti e pensi che Carney dovrebbe trovare un posto fisso nell’olimpo dei batteristi. Per non parlare degli assoli di chitarra che qui fa Auerbach, che ci ricordano il Buddy Guy di Sweet Tea (2001), uno dei più bei dischi del grande chitarrista blues, un omaggio all’HCB con 4 cover di Kimbrough. I’m Not the One è una ballad lenta, contraddistinta dal solito pestare come un matto di Carney, dal piano elettrico, nonché da un cantato che ti spinge a urlare con lui nel ritornello, “I’m not the one”, come se la tua vita dipendesse da questo.

La chiudo qui e vi dirò che “Brothers” è una cosa che se l’ascolti con un minimo di attenzione ti lascia una traccia profonda; una esperienza emotiva come solo il Blues può dare. I White Stripes avevano già reso fico il “Delta Blues” per i millennials, The Black Keys fanno la stessa operazione qualche anno dopo con l’“Hill Country Blues”. Che poi i millennials, abituati a classificare tutto come “Rock alternativo”, se ne siano accorti, è un’altra storia.

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