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Back In Time

“Zenyatta Mondatta” dei Police è “pop”? Provateci voi a fare “ta-tam”

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Zenyatta Mondatta” è “pop”? Che ci fa in una rivista di musica “alternativa”? Ero troppo piccolo per queste domande  nell’autunno 1980, quando uscì e prima che potessi raggranellare i soldi necessari per comprarlo, già lo avevo sentito dappertutto: radio, TV, supermercati, feste di compleanno. Ecco: le feste di compleanno. Se veniva ascoltato nelle feste di compleanno delle medie supervisionate da mamme onnipresenti, come oggi si ascolta, chissà, Fedez o Annalisa, deve essere “pop”. “Reggatta de Blanc” lo avevo letteralmente consumato e ne suonavo i brani con la mia prima band di pre-adolescenti che rubava gli strumenti ai fratelli maggiori, un pò schifati delle nostre scelte artistiche. Sono di quelli che è cresciuto con The Police in sottofondo, tra scuole medie e liceo. Un amore che raggiunse il picco tra i due dischi citati, per poi lentamente scemare nelle prove successive. A distanza di quattro decenni, sono ancora questi i Police per me. Cominciano con il post-punk di “Outlandous d’Amour”, continuano con il power-reggae di “Reggatta de Blanc” e finiscono con “Zenyatta Mondatta”. Poi basta: all’epoca i due successivi li comprai a scatola chiusa ma, dopo ripetuti ascolti, non rimasero nel cuore.

Quattro decenni dopo nasce il dubbio che, ok va bene da pischello, ma a 50 anni puoi ancora canticchiare con Sting: “de-do-do-do-de-da-da-da”? È pop? Ha cittadinanza solo nella rubrica “Guilty Pleasures”? È peccato mortale? Poi, qualche giorno fa, vedo con sorpresa questo disco nella lista dei possibili “Back In Time”, per cui cercasi recensore. Mi son detto: “bene che va, lo hanno fatto per vedere dove si annida il soggettone in redazione. Chi è il pirla che oggi ha ancora in testa il tormentone “de-do-do-do-de-da-da-da”. Chi è quello abbastanza vecchio da ricordare feste di compleanno con la colonna sonora dei Police, mentre speravi che quella sarebbe stata la festa della tua prima pomiciata (sempre che le mamme andassero un po’ in cucina, ovvio).” Eccomi, io c’ero.

Posso citare a mia discolpa che in quella band pre-adolescenziale (e anche dopo), io suonavo la batteria e, durante tutta la mia ingloriosa parabola batteristica, avrei venduto l’anima al diavolo per “suonare come” e “avere il suono di” Stewart Copeland. Che qui, sul terzo disco dei Police, è al top. A un certo punto, per vedere se riuscivo a cavare un ragno dal buco dalla batteria e se avevo qualche talento (non ne avevo), decisi di andare a frequentare una prestigiosa scuola di jazz. Dove un prestigioso batterista jazz a un certo punto mise su proprio lui, Stewart Copeland, non ricordo che pezzo ma non mi stupirei se fosse da “Zenyatta” e lo additò a esempio perfetto di un batterista “originale” e “inconfondibile” che “appena poggia la bacchetta sul tamburo lo riconosci”. Avete capito? Negli anni ’80, quando il jazz era una roba da intellettuali e il rock una roba da superficiali, questo diceva il prestigioso batterista, luminare del jazz, di cui non farò il nome per sacro rispetto. 

Ascoltate When The World Is Running Down You Make The Best Of What’s Still Around: “ta-tam” dice Copeland all’inizio. Perché-lo-dice, mica lo suona. L’ho ascoltato mille volte. A volte ascolto solo quello, nemmeno il resto della canzone, o del disco. Quel mezzo secondo. In repeat (a proposito, qualcuno lo ha campionato? O non hanno osato, come sarebbe giusto?). E nessuno lo può rifare uguale. Nessuno, alla batteria, può riprodurre quel “ta-tam” iniziale, per tacere del resto della traccia dove il mio eroe ripete per 3:37 lo stesso pattern batteristico, senza mai toccare altro che non sia la triade fondamentale rullante/hi-hat/cassa. Dura 3:37 ma ti entra nella testa come se fosse infinito: l’unica variazione che ammette è una leggera apertura dell’hi-hat, sempre sul levare, ogni qualche 4/4. La batteria fa la canzone e sale “sopra” a tutto il resto, creando le basi di un miracolo musicale. Andy Summers dà le atmosfere facendo suonare la chitarra come fosse un synth, con la ritmica che cade sul battere creando una tensione perfetta con Copeland. Sting ripete una linea di basso sempre uguale e offre una delle migliori prestazioni vocali della sua carriera cantando in maniera sincopata e ispirata. Il risultato è parte funk, parte new wave, parte punk, parte prog: ecco, di sicuro non è “pop”, ma un piccolo gioiello, esempio perfetto di come i tre musicisti sappiano creare un concentrato di ritmo e atmosfera che non può lasciare indifferenti per originalità e inventiva.

Così come non è “pop” la precedente Driven To Tears che inizia con Copeland che (sempre e solo con il rullante) dice: “tra-tra-tra-tra-tra-tra-tra-tra” e poi, per una volta, rulla sui tom e lascia il rullante, facendosi sostenere sulla strofa da un basso ipnotico e poi, torna al rullante e ai tom, sul ritornello. Quindi Andy Summers fa l’assolo sporco, industriale, brevissimo, che riscatta la banalità armonica del bridge. E per finire si corre: chitarra ritmica, stesso basso ipnotico e Copeland che all’inizio crea suspense sul piatto e poi diventa grezzo e duro, fino a portarti all’apoteotica conclusione.

La successione delle due canzoni è un capolavoro che, mixato in una linea continua tenuta insieme da quel “ta-tam”, è impensabile separata (a parte il “ta-tam” in se) e voglio sperare che in concerto non si siano mai permessi di non suonarle di seguito (con “ta-tam”, chiaro). Già questa successione basterebbe per farmi amare “Zenyatta Mondatta” per sempre. Ma nel disco c’è molto di più. Ci sono un paio di cazzeggi come De-do-do-do-de-da-da-da e Canary In A Coalmine. Entrambi irresistibili, non so se per merito di Copeland e francamente mi chiedo cosa sarebbero con un altro batterista. Poi c’è Voices Inside My Head. Un tentativo di world music vogliamo definirlo? Una reminiscenza prog? Anche qui, già Copeland da solo vale il prezzo del biglietto. In Bombs Away è sempre lui a lanciare le danze: “tum-do-do-do-dom-da-da-da-dam” o qualcosa del genere. Bellissimi gli assoli di Summers.

Arrivati a questo punto ci siamo appena accorti che Sting è riuscito a cantare anche di cose toste come la fame nel mondo e la guerra. A parte la ruffianissima Don’t Stand So Close To Me, hit delle feste di compleanno sotto accusa, che il biondo cantante si assicurò di far subito sapere che era ispirata ai tempi in cui faceva il professore di liceo e una studentessa (immagino minorenne) gli faceva pericolosamente le fusa. A parte che oggi una storia così non la potrebbe raccontare, a pena di essere accusato di cose innominabili, rimane la paraculaggine, che fosse vera o meno la storia, di far sognare frotte di ragazzine di essere loro quelle che provocavano il timido professor Sting. Ecco, questo magari è “pop” ma ci piace: la canzone, non Sting (almeno a me). Anche se a volte fatico a ricordare che esiste perché, venendo all’inizio del disco e prima del succitato duo Driven To Tears/When The World Is…, troppo spesso la salto per la fretta di andare al sodo.

Behind My Camel è lo strumentale di Andy Summers, dove lui suona pure il basso perché il bassista della casa si rifiutò: come si permetteva il chitarrista di scrivere un pezzo tutto suo e strumentale e pretendere che apparisse nell’album, impedendogli di cantare e far sognare le ragazzine? Ecco che nel giro di un paio d’anni di successi e soldi e ragazzine adoranti, Sting, il timido professore liceale che agli inizi del gruppo faceva tutto ciò che diceva Copeland, aveva perso la trebisonda e cominciato il trip egotico che tra vigneti in Toscana, tantra, chef privati maltrattati e fallimentari musical a Broadway, non lo avrebbe più abbandonato. La megalomania stinghiana produce i primi scricchiolii nel gruppo che culmineranno nel mancato riconoscimento a Summers sui crediti di Every Breath You Take, un paio di dischi dopo. Non che sia una roba di cui andar fieri, Every Breath, quello sì è “pop”, nel senso peggiore che lo ascolti per un pò e poi passa con l’adolescenza. Ma stiamo comunque parlando di milioni di dollari di diritti d’autore e io sarei stato meno signore di quanto lo è stato Andy.

Rimanendo a “Zenyatta”, Man In A Suitcase merita ancora una citazione: orecchiabile, reggae, tirata, innovativa e concisa. Non sfigura affatto nel disco, così come Shadows In The Rain, basata su una linea di basso funk, chitarra dissonante e distorta in sottofondo, qualche tocco al pianoforte e la batteria e la voce protagonisti. Solo il pezzo finale, The Other Way Of Stopping è un filler strumentale senza idee degne di nota.

Per concludere. È “pop”? Mah. Va preso sul serio? No, malgrado qualche testo “serio”. Si può ascoltare? Si deve: è un capolavoro. E dopo provateci voi a fare “ta-tam” come Copeland.

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