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Limp Bizkit – Still Sucks

2021 - Suretone Records
nu metal

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Tracklist

1. Out Of Style
2. Dirty Rotten Bizkit
3. Dad Vibes
4. Turn It Up, Bitch
5. Don’t Change
6. You Bring Out The Worst In Me
7. Love The Hate
8. Barnacle
9. Empty Hole
10. Pill Popper
11. Snacky Poo
12. Goodbye


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Il titolo è un monito e dopo dieci anni di nulla assoluto, ché battezzare un album che pareva essere più un fantasma che una “solida realtà” con un altisonante “Stampede Of The Disco Elephant” o in qualsiasi altro cazzo di modo non sarebbe stato sensato. Durst, poi, è una vecchia volpe che conosce bene che formule vincenti tirare fuori quando è ora di farlo. E già dire che, comunque, nonostante l’attesa, i Limp Bizkit facciano ancora schifo è una di quelle (mettendo la manina nel portafogli di Les Claypool e del sempiterno motto “Primus Sucks”, dopo avergli prodotto un pezzo di “Antipop”, chissà che bella roba dev’essere). Aggiungeteci pure l’ingrediente finale del suo travestimento da “daddy”, nel senso di “paparone”, non certo di nookiettaro sporcaccione, mandando in cantina il suo bel cappellino d’ordinanza e facendo quello che Wesley Borland fa da praticamente tutta la carriera, beh, è il tocco finale. O iniziale, perché da lì è partito tutto, la rete è impazzita e i meme sono fioccati. La strada spianata.

Ma noi che abbiamo amato i Limp Bizkit ai tempi d’oro – quantomeno noi che li abbiamo amati mantenendo attivo quel minimo di spirito critico – già lo sapevamo che i Biscottoni Molli sucks, che what you see is what you get, figli dei loro tempi e basta. Insomma, “Still Sucks”? Senza dubbio alcuno. Ma in fondo il bello sta tutto lì. Puoi mica ascoltare tutti i giorni Ryuichi Sakamoto e dirti sano, ci va qualcosa in mezzo, e in mezzo ci sono loro. Chiaramente ingiustificati i dieci anni di lavori ininterrotti per completare il disco, Durst ne ha dette di ogni, tirando in ballo le peggio influenze, a seconda del momento in cui ha rilasciato una o l’altra intervista. Invece 100% Limp Bizkit, impermeabili a qualsiasi cambiamento attuato in musica dall’inizio del nuovo millennio in poi. Meglio di “Gold Cobra”? Potete scommetterci, ma ci voleva anche poco, però tutti gli elementi di quell’album qui sono esasperati e migliorati – sempre che di migliorie si possa parlare. Della “trilogia” terminata nel 2000 con “Chocolate Starfish”? Nemmeno l’ombra. O meglio, forse, un pizzico di polvere magica per innestare il turbo.

Turbo che però va a singhiozzo. Si facciano subito i cosiddetti “conti della serva” cancellando lesti dalla lista le tre ballad (e io che mi illudevo che quell’abominio che è la cover di Behind Blue Eyes fosse già il peggio possibile) che infestano la casa come spettri indesiderati, sempre che non apprezziate l’idea di Fred che fa il verso (male) a Justin Timberlake, allora alzate il volume sulla conclusiva Goodbye e pace all’anima vostra.

Cosa resta? Peschiamo da ‘sto baseball cap ormai in disuso e troviamo: n. 2 pezzoni rap (visti i precedenti sono proprio -oni), il primo, Turn It Up, Bitch, che scimmiotta forte i Beastie Boys ma gira bene sul perno di un sample di contrabbasso, DJ Lethal pronto sugli scudi di Snacky Poo, boombappone saltellante che però dura poco e niente, incastrata tra rumori di patatine scrocchiate e una telefonata; n. 2 pallettoni nu-metal smargiassi “Limp Bizkit style” con tutte le cose al loro posto, tipo Borland che sbiella su Out Of Style e poi apre su un ritornello pigliatutto, Otto e Rivers che mischiano le ossa mentre Dirty Rotten Bizkit si sbarazza dei resti; n. 1 illusoria ballad elettrica con voce autotunnata (non l’unica) la cui maschera cade sulle grida monstre del chorus a ribadire il titolo You Bring The Worst In Me, con il gruppo a farsi sotto che manco un pacchetto di mischia; n. 1 bolide industriale drogato e inferocito (Pill Popper); n. 1 botta e risposta autoreferenziale (ma dai?) tipo quella All In The Family là, solo che qui Durst fa tutto da solo ma ne recupera il modus, quindi le dà il nome di Love The Hate; dulcis in fundo arriva Barnacle, che con un richiamo pop-punk hardcoreggiato scuote le fondamenta anche se per due minuti scarsi.

A “Still Sucks” va dato atto di essere uscito nell’epoca della musica in streaming, ché se, per pura ipotesi, fosse stato pubblicato prima di poterne fruire gratuitamente in tanti avrebbero chiesto il rimborso. Non di sicuro i fan irriducibili della band, loro no, convinti come sono che questi dal vivo spacchino ancora e non abbiano l’età che hanno. Ma forse nemmeno io, che se skippo quei pezzi brutti, ma brutti davvero, un po’ di brivido che sale lungo la schiena lo sento. Mi chiedo se in fondo non sia a mia volta un irriducibile o se la colpa sia tutta da imputare all’effetto esilarante di Papà Fred.

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