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Back In Time

“Transformer”, quando Lou Reed cambiò il mondo senza offendere nessuno

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Stiamo uscendo fuori / Fuori dai nostri armadi / Fuori nelle strade

– da “Make Up”

A ripensarlo oggi, 49 anni dopo, il vero profondo significato culturale di “Transformer” sta in questo passaggio di una della canzoni meno celebrate del disco. Erano gli anni del glam-rock: i lustrini, le pose ambigue, i travestimenti. Erano finiti gli anni d’oro degli “hippie”, un movimento al quale Lou Reed era sempre stato in opposizione. E la cultura giovanile, con il glam, stava andando verso una direzione aperta dai Velvet Underground negli anni precedenti: un’alternativa al pop romantico e smielato da classifica dei primi Beatles, così come al machismo blues degli Stones o degli Zeppelin.

Di fatto, l’influenza dei Velvet è andata molto più in là del glam. Ma, intanto, rimanendo al 1972, artisti come i T-Rex, Alice Cooper o David Bowie entravano nelle classifiche e nell’immaginario collettivo sull’onda di quella spinta liberatoria partita dal primo “album della banana”. “Lou ci ha dato la strada e il paesaggio e noi lo abbiamo popolato”- disse Bowie al riguardo.

Da lì a proporsi come produttore del nuovo album di Reed, il passo fu logico e breve per Bowie. I due si presero immediatamente. Il newyorchese aveva 5 anni di più dell’inglese che guardava a lui come a un mito: “Spero di rivederti, è stato così emozionante per me”, disse David dopo il loro primo incontro. Non ci fu problema, Reed aveva capito subito che Bowie era quello che ci voleva per rilanciare la sua carriera, giunta a un crinale pericoloso dopo l’uscita dai Velvet, il flop clamoroso del disco solista d’esordio e trovandosi in piena dipendenza da alcol e droga. “Lou Reed è il più grande scrittore di rock’n’roll al mondo” – pontificava Bowie con la stampa. Tanta paraculaggine, anche sincera, venne pareggiata da Reed che stampò un appassionato bacio sulla bocca al suo nuovo produttore, proprio quando la fotocamera di Mick Rock era nei paraggi.

Creata l’attesa del pubblico con queste mosse, per co-produrre il disco e suonarci Bowie si portò dietro il fido chitarrista degli Spiders from Mars: Mike Ronson. Secondo Lou, il contributo artistico di Ronson fu ancora maggiore di quello di Bowie, soprattutto per quanto riguarda gli arrangiamenti. Malgrado la barriera linguistica; il suo accento dello Yorkshire era incomprensibile per Reed, il quale ricambiava con il suo gergo artistoide: “Mick, la vorrei un po’ più grigia”, era il tipo d’input indecifrabile che dava sulle canzoni. Ciò malgrado resta il risultato: “Transformer”, il disco glam di “Lou Reed”, quello che gli avrebbe dato riconoscimento e gloria mainstream nei decenni, grazie innanzitutto all’inconfondibile copertina di Mick Rock e alla hit Walk on the Wild Side.

Ed è certo che il disco suona glam. Suona un po’ come “Hunky Dory” o “The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars” e non potrebbe essere altrimenti visto che fu co-prodotto dalle stesse persone che avevano realizzato quelle opere nello stesso periodo. Musicalmente, questa fu la forza, anche commerciale, del disco: il potersi infilare in un genere che le radio stavano battendo. Ma, riascoltato il secolo dopo, ne è un po’ il limite: “Transformer” non è il rock’n roll senza tempo di “New York”, oppure la sperimentazione senza tempo dei Velvet. E’ un disco della sua epoca che, a rifarlo oggi, suonerebbe diverso.

Eppure, mai sottovalutare Lou Reed: lui è sempre un passo avanti tutti gli altri. Persino di Bowie. Tutto il glam di quegli anni giocava con l’ambiguità sessuale e di genere in un modo che i più non potevano capire. La cultura queer era talmente sotterranea ed estranea al consumatore medio di musica che la fluidità sessuale di un Bowie o di altro eroe glam, non erano veramente comprese nella loro interezza da chi comprava i dischi. Sì, c’era l’intervista in cui Bowie si disse bisessuale, ma ai quei tempi le notizie non giravano come oggi. Ai più, arrivava un messaggio di liberazione vago, ma potente, che diceva ai ragazzi che potevano essere quel che gli pareva, al di fuori dai modelli imposti dalla società che avevano ereditato; ma il messaggio non diceva che cosa si poteva essere, in cosa ci si poteva trasformare.

Con un disco intitolato proprio “Transformer”, Reed lo faceva. I versi surriportati di Make Up, lo facevano, riprendendo le parole d’ordine del movimento gay che, proprio in quegli anni, cominciava a farsi sentire: “fare coming out”, uscire dagli “armadi”. Slogan arrivati fino a noi e che “Lou Reed” consegnava alla storia su vinile. Pur nella furba consapevolezza che almeno il 90% di chi comprava il disco non aveva comunque idea di star partecipando ad una vera rivoluzione sessuale, non quella già fallita degli hippie e che lui aveva sempre disprezzato. Il disco arrivò al 29 in USA, al n.1 in Francia, fu platino nel Regno Unito e oro in diversi paesi europei tra cui l’Italia. Se nemmeno gli ascoltatori delle radio inglesi o americane, che difatti passavano Walk on the Wild Side senza problemi, capivano che l’espressione “giving head” stesse a indicare il sesso orale praticato da un giovane travestito promiscuo, figurarsi in Francia o in Italia. Vent’anni dopo, quando immagino lo avessero capito, la Republique, avrebbe insignito l’artista newyorchese del titolo di Chevalier delle arti e delle lettere.

L’ambiguità di fondo era ricercata da Reed che, con la sua abituale sfrontatezza, non aveva problemi a dirlo alla stampa:  “C’è un sacco di ambiguità sessuale nel disco e due canzoni  apertamente omosessuali, da me per loro, ma le parole sono state scelte con attenzione così gli etero possono non coglierne le implicazioni e goderne senza rimanere offesi.” E mentre gli etero non si offendevano e compravano il disco, gli altri si godevano il fatto di essere, finalmente lì, “fuori dai nostri armadi, fuori nelle strade”. Come disse l’attivista e scrittore gay, Don Shewey, in relazione alla prima volta che ascoltò “Transformer” in quel 1972: “Mi aprì un mondo di possibilità e gli sarò sempre grato per questo”.

Questo è il senso profondo del disco, oggi nel suo 49mo anniversario, che noi vogliamo celebrare un anno prima di quel 50mo che, lo speriamo, ci porterà boxoni, remix, outtake e quant’altro che non mancheremo di comprare. Nella speranza che tutto ciò aiuti a compensare se non Lou, almeno i suoi eredi, per quel mancato successo mainstream a cui lui agognava disperatamente, seppur sputandoci sopra quando ci si avvicinava. Fu proprio quel che fece con il successo di “Transformer”, opera alla quale fece seguire un capolavoro come “Berlin”, che in ben pochi compresero allora e che già non aveva nulla che fare con il glam. Musicalmente infatti, “Transformer” era una strada senza uscita. Andati via Bowie e Ronson, compiuta la missione storica di salvare un geniodall’oblio artistico (missione ripetuta con Iggy Pop qualche anno dopo), per Reed non c’era più modo e voglia di fare un altro disco glam alla moda dei tempi.

Riascolti oggi un pezzo come Satellite of Love e ti dici: “datato”. Poteva comparire su “Ziggy Stardust” e ci sarebbe stato bene, tanto più che parla di viaggi spaziali, tema irrinunciabile all’inizio dei ‘70. Eppure se lo ascolti una sola volta, ancora oggi, ti rimane in testa una settimana e lo devi riascoltare a ripetizione. E questa analisi: “datato ma irresistibile”, vale un pò per tutto il disco. Vale per il rock’n roll basico di Vicious, impreziosito dalle inconfondibili scariche chitarristiche di Ronson. “Vizioso / Mi colpisci con un fiore …. / E vuoi che ti colpisca con un bastone / Ma tutto quel che ho è un plettro da chitarra”: ispirata da una vecchia conversazione con Andy Warhol, la canzone percula apertamente gli hippie e suggerisce l’esistenza di ben altre realtà, come il mondo BDSM, già ampiamente frequentato dai Velvet Underground. Vale per Andy’s Chest con i suoi coretti da R&B d’antan. Vale per Perfect Day: pianoforte e orchestra come se fosse una qualunque Starman o Life on Mars. Il grande Bowie ci perdoni, ma qui c’è molto di più, soprattutto se si scava nei testi che dipingono prima un celestiale quadretto ispirato alla compagna di Lou, Bettie Kronstadt, per terminare in una depressione introspettiva con una potenza senza eguali: “proprio una giornata perfetta / mi hai fatto dimenticare me stesso / credevo di essere un altro / qualcuno buono”. Vale per Hangin Round, che potrebbe essere un rock’n roll preso da “Aladdin Sane” piuttosto che da un disco dei Rolling Stones, come Wagon Wheel. E mi fermo qui, perché non voglio dilungarmi nell’esegesi traccia per traccia di “Transformer”. Anche perché siamo arrivati solo alla fine del lato A e spunta Walk on the Wild Side e non ci sono più parole e, in questo caso, la proposta musicale non è nemmeno datata: un motivetto senza tempo tra il jazz e il pop, che potrebbe fischiettare tanto tuo figlio, quanto tua nonna, senza che debbano sapere che si parla di pompini, droga e prostituzione omosessuale. E non vi racconterò per l’ennesima volta la storia dei 5 personaggi queer o trans immortalati qui da Lou Reed per la prima volta nella musica e nella cultura mainstream, “senza offendere gli etero”: e questo è stato probabilmente il capolavoro nel capolavoro. La ciliegina geniale, in un disco geniale.

Lou Reed non è stato un artista politico, a parte qualche riferimento dispregiativo nel corso della carriera ai “repubblicani”, intesi più come categoria umana che come partito politico e nella quale ricomprendeva il suo non tanto amato padre. Ma le sue idee su certi temi, sui diritti delle persone, sono sempre state chiare. E a differenza di quegli artisti che vogliono cambiare il mondo, come Bono Vox, uno a caso, ci sono poi quelli che lo cambiano e basta, come Lou Reed.

Qualunque società che consenta a gente come Lou e me di scatenarsi è bella e che persa. Siamo entrambi molto incasinati, tipi paranoici – dei disastri ambulanti assoluti. Davvero non so cosa stiamo facendo. Se siamo l’avanguardia di qualcosa, non siamo necessariamente l’avanguardia di qualcosa di buono

– David Bowie

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