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Zappa


Scheda

USA - 2020 - Documentario
Durata: 129'
Regia: Alex Winter

Andare al cinema ed essere colmi di speranze per un docufilm a tema musicale è sempre un grosso rischio. Rischio che ingigantisce se la pellicola in questione è dedicata a Frank Zappa. Niente preamboli per spiegare il perché e il percome, ché Zappa è Zappa e se non ne sapete nulla mi chiedo che ci facciate qui.

Alex Winter fa un tentativo. “Zappa” ha creato un hype di un’entità tale che tutti gli zappiani non si contenevano più, nell’attesa. La pompa magna con cui il lavoro con cui il regista di origini inglesi è stato strombazzato al mondo ha fatto il resto. C’è un film su Zappa, si va a vedere. Punto e basta. Vada come deve andare. E se va male, ok.

Sì, ma come va? Non è il caso di bocciare in tronco il progetto, perché riuscire nell’impresa di condensare il personaggio in questione in 129 minuti è, per l’appunto, un’impresa. Troppo ci sarebbe da dire, troppo è stato già detto e ancora si dirà, perché non è la vena di una cava che si può esaurire nel giro di pochi anni, né tanti, né un centinaio. Se ne parlerà finché ci saranno zappiani a piede libero, e mi auguro ancora per molto.

Winter tenta di stare in equilibrio, sospeso tra il Frank-Uomo, padre, marito e via così e il Frank-Compositore-Musicista, e se ci fosse da scegliere quale delle due figure sacrificare sull’altare del documentarismo io sceglierei la prima, pur non dovendola ignorare nel bene e nel male (che a mio avviso è molto e viene messo da parte, come nella migliore delle docu-tradizioni). Pochi interventi esterni e nemmeno esaustivi, fa sempre piacere sentir parlare Steve Vai (e non sempre in positivo) o Alice Cooper, Mike Keneally, Ian Underwood, la strepitosa Ruth Underwood, ma il dosaggio di questi interventi è mal bilanciato e spesso insipiente. Menzione a parte quello di David Harrington con conseguente performance di None Of The Above del suo Kronos Quartet, momento migliore in assoluto su questo versante. Tante mancanze, magari anche di quei musicisti esterni alla cerchia zappiana, che fa sempre gola sentir parlare per capire l’incidenza dell’Uomo da Utopia su musicisti di ogni estrazione, ma anche molto materiale d’archivio prezioso, su tutto quello in Cecoslovacchia e il concerto finale con l’Ensemble Modern, ma dov’è lo sketch con Gerry Scotti su Deejay Television?

Si ha la sensazione, ad un certo punto, che il tempo a disposizione sia così poco che si sorvoli su tantissimi aspetti musicali, sulle formazioni, tante delle quali semplici nomi sullo schermo, ci si fissi su altre (ovviamente i Mothers), e che il regista non sapesse se fare una cosa davvero matta in pieno stile Francesco (che so, tipo “Theory Of Obscurity” dei Residents) oppure roba “seria”, fin troppo condita dal pietismo che investe il finale, negli anni della malattia, la musica “presammale” e i momenti strappalacrime, forse la cosa meno in linea di tutte, ma che al pubblico potrebbe piacere. Non so quanto a quello all’autore di Broken Heart Are For Assholes, ma non si può mai dire.

Quello che fa davvero bene al cuore, invece, è sentir parlare il baffuto, vederlo scrivere sugli spartiti mentre racconta della sua infatuazione infantile per gli esplosivi o mentre deride le massime istituzioni, che siano esse politiche o della cultura pop, come quella del Saturday Night Live, le major e il pubblico in generale. Tutto il resto sta già nel suo “The Real Frank Zappa Book”.

Frank era, è e sempre sarà troppo per pigiarlo in un film. Nella mia mente la cosa più bella in assoluto sarebbe di tributarlo con una lunga serie, perché ogni suo periodo ha coinciso con un cambiamento dell’ambiente che lo circondava. Non un docufilm, e non questo tipo di docufilm, perché definirlo “il documentario definitivo su” mi pare la più grande delle esagerazioni.

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