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Back In Time

“Hunky Dory”: tutto ancora fighissimo 50 anni dopo. Grazie David Bowie

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Mmm, Tesoro, non riesco a capirlo / Stai Cambiando, non lo posso sopportare

Changes

È reperibile online un articolo di Billboard del 2016 intitolato “David Bowie ha influenzato molti più generi musicali che qualunque altra rock star”. Ora, personalmente sono sempre un po’ scettico di fronte ad osservazioni così decise. Certo, l’influenza di Bowie su “molteplici”incarnazioni della musica degli ultimi 50 anni è innegabile. Ma “egli più che qualunque altro?”. E allora Lou Reed? E allora i Beatles? E Miles Davis? E cito solo i primi tre che mi vengono in mente.

In altre parole, queste cose sono soggettive. Per quanto affermazioni di questo tipo potrebbero scappare anche dalla mia tastiera, sappiate che, se lo faccio, in fondo non ci credo e se lo faccio è solo perché io non sono Billboard. Come si può fare una gara del genere, quali dati oggettivi si possono citare per dire che un artista ha influenzato più generi di un altro? Già la distinzione di “genere” è labile, in natura come in musica. 

E questo ci porta al punto. Quando diamo una etichetta di genere a un disco o a un artista stiamo semplificando. Nel caso poi di gente come Bowie, anche peggio: egli è ben oltre i generi e lo ha ampiamente dimostrato lungo 50 anni di carriera e oltre 25 album in studio. Pensiamo alla tripletta che in un anno e mezzo, tra 1970 e 1972 lo porta dal folk-rock di The Man Who Sold The World, all’Indie-pop di “Hunky Dory”, all’hard-rock di Ziggy Stardust. Ecco, abbiamo dato una etichetta a “Hunky Dory”: “indie-pop”. Peccato solo che quando uscì, esattamente 50 anni fa il 17 dicembre 1971, questo genere non esisteva. Lo stesso articolo di Billboard tuttavia, definisce “Hunky Dory” come “il modello per ogni disco Lo-fi Indie-pop”. Ancora, affermazione un pò troppo netta ma forse, in questo caso, più vicina al vero.

Quando uscì, il disco non fece proprio il botto. Ci volle, 7 mesi dopo, il traino di Ziggy Stardust perché il pubblico riscoprisse “Hunky Dory” e lo portasse al numero 3 delle classifiche britanniche, addirittura sopra a Ziggy, spinto anche dal singolo Life On Mars?

E questo ci riporta al punto che poi è incarnato nei testi di Changes: il cambiamento. 50 anni di carriera e oltre 25 dischi solisti testimoniano, con il senno di poi, un cambiamento continuo, un’eclettismo raro, volendo dare ragione almeno in parte a Billboard. “Hunky Dory” è il disco con cui Bowie rivendica questo diritto al cambiamento continuo, il disco con il quale comincia a trovare la sua identità. Cangiante, trasformista, eclettica, appunto. Con questo disco, egli consegna al mondo la sua cifra stilistica; delle canzoni, come le stesse Changes e Life On Mars?, che lo definiranno da allora in poi, riconoscibili in quanto portanti la sua inconfondibile firma d’autore. E consegna al mondo il modello, se non per l’Indie-pop che non esisteva ancora, sicuramente per il glam rock.

Salvo poi mutare ancora con “Ziggy“, “Aladdin“, “Heroes“, “Let’s Dance” e via dicendo fino al grandioso atto finale di “Blackstar“. V’interesserà poco sapere che, a gusto di chi scrive, “Hunky Dory” non è il più bel disco di Bowie, probabilmente non rientra nemmeno nella mia personale Top 5 dell’artista. Poco importa, perché, se avete letto fino a qua, non è per scoprire le mie preferenze personali ma eventualmente perché avete voglia di riflettere sul significato di questo disco nel suo cinquantesimo anniversario. Disco, che per molti, è legittimamente il preferito, o uno dei preferiti, del nostro. Legittimamente, in quanto l’opera è di assoluto valore. 

(Photo by Earl Leaf/Michael Ochs Archives/Getty Images)

Ken Scott, il produttore, veniva da anni di lavoro come ingegnere di studio per, tra gli altri, i Beatles. Qui fa il suo esordio come produttore e, nei successivi decenni, avrebbe lavorato un pò con tutti, compresi i Supertramp, i Devo, Jeff Beck, i Kansas e avrebbe avuto un’influenza fondamentale sullo sviluppo del genere Jazz-rock tramite il suo lavoro con la Mahavishnu Orchestra, Stanley Clarke e altri. Il sound pionieristicamente “Lo-fi” dell’album è merito suo e probabilmente del fatto che, come ammise successivamente, “pensavo che potevo fare errori perché nessuno avrebbe ascoltato l’album. Non avrei mai pensato che Bowie sarebbe diventato una superstar.” Questa rilassatezza produttiva fu agevolata dall’artista principale che, si racconta, non intervenne affatto sulla fase post-registrazione, lasciando Scott fare il suo lavoro senza pressioni.

“Hunky Dory” è anche il disco in cui il chitarrista Mick Ronson inizia ad occuparsi degli arrangiamenti. Compito che porterà avanti anche in successive opere di Bowie, nonché in “Transformer” di Lou Reed. E anche questo contribuisce a dare un sound specifico al disco, “il sound di Bowie”.

Infine, come non citare la presenza di Rick Wakeman al pianoforte, lo stesso specifico pianoforte peraltro che Paul McCartney aveva usato su Hey Jude e che Freddy Mercury userà su Bohemian Rapsody. Dopo aver ascoltato le prime demo dell’album, Wakeman non vedeva l’ora di entrare in studio e registrare “le più belle canzoni che avevo ascoltato in tutta la mia vita”. Finito il lavoro sull’album, il tastierista comincerà a lavorare con gli Yes, la band che gli consentirà di esprimere il suo talento al massimo nei decenni successivi e entrare nella storia come il grande musicista che è.

Supportato anche da questi fenomenali contributi, l’eclettismo di Bowie attraversa tutto “Hunky Dory”, che non è certamente etichettabile in modo sbrigativo e univoco. Vi troviamo, tra l’altro, il folk ispirato a Neil Young di Kooks e il comedy-pop di Fill Your Heart, unica cover del disco.

In tre tracce Bowie offre invece il suo tributo a tre suoi eroi americani. Andy Warhol comincia in maniera sperimentale e spiazzante con dei rumori di studio, per poi svilupparsi intorno a un riff suonato da Ronson all’acustica. Quando Bowie incontrò Warhol nel settembre 1971 e suonò la canzone per lui, questi lasciò la stanza orripilato. Per Bowie l’incontro fu affascinante in quanto “Warhol non aveva proprio nulla da dire, assolutamente nulla”. Song For Bob Dylan è un altro tributo esplicito. Non è chiaro tuttavia se si tratti di un elogio o di una paternale in cui l’artista rimprovera al suo eroe di essersi in qualche modo perso: “Ascolta, Robert Zimmerman / Anche se non credo c’incontreremo / Chiedi al tuo vecchio amico Dylan / Se vuole scendere un pò lungo la vecchia strada / Digli che abbiamo perso le sue poesie”. In ogni caso, il tutto risuona poco ispirato e originale: musicalmente, rifa un pò il verso a progressioni armoniche tipicamente dylaniane, nonché a due canzoni dei Velvet Underground, There She Comes Again e Here She Comes Now. Molto meglio riuscito il tributo diretto a Lou Reed e agli stessi Velvet, a proposito di artisti che ne hanno influenzati tanti altri, ringraziati finanche nelle note di copertina: “un po’ di ‘luce bianca’ dei V.U. restituita con tanti grazie”. Molteplici sono i riferimenti musicali e lirici ai Velvet contenuti nei 3:21 di Queen Bitch, tirati e anticipatori nel sound di quello che sarà poi “Ziggy Stardust“.

“Tutto è rose e fiori”: questo sarebbe il significato dell’espressione che da il titolo all’album, presa dallo slang inglese. 50 anni dopo, ancora tutto fighissimo, da queste parti almeno. Grazie anche a David Bowie, a tutti coloro che lo ispirarono e a tutti coloro che ha influenzato.

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