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“Blondie”, ghiaccio bollente punk prima del punk

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Fu con le pose da pin up eccentrica e ribelle di Deborah Harry e i suoi vestitini comprati ai mercatini dell’usato sull’8th Street di Manhattan, che nel 1976 il rock’n’roll ritornò ad essere (anche) divertente, glamorous e sexy: intorno al caschetto al perossido dell’ex coniglietta di Playboy ribollivano i Blondie, più o meno la versione dance del Patti Smith Group, di certo una delle band più brillanti emerse da quel paradiso del punk da tre dollari ad entrata che era il CBGB’s del periodo.

Quella dei Blondie fu un’intuizione felicemente ossimorica: riscattare il lato ludico del punk portandolo in discoteca, cosa che ai rockers del tempo dovette sembrare una bestemmia in chiesa. Di fatto, inventarono il disco rock, ma fu solo una delle tante impronte lasciate sulla via della gloria dalla Harry e compagni, perchè dalle finestre aperte sulla Bowery lasciarono continuamente entrare gli echi provenienti dal milieu esotico e a colori dei bassifondi. Mentre la Smith e soci investivano in rabbia e poesia, i Talking Heads raccontavano già il futuro e i Television erano l’avanguardia simbolista e decadente di quel nuovo sentire rock, i Blondie si preoccupavano di far ballare la gente.

Le ambizioni da diva della blank generation della Harry presero forma allorché conobbe Chris Stein, fotografo e brillante chitarrista appassionato di erba, acidi e magia nera, un hippy fuori tempo massimo che con la band di gioventù aveva aperto per i Velvet Underground rimanendone segnato. Stein, che con la Harry stabilì una relazione sentimentale durata una quindicina di anni, scriveva usando la lavatrice come metronomo, e passava le giornate in lavanderia a cercare il beat giusto. Oltre ad una esuberante fotogenicità, Debby Harry portava la gelida carezza di una voce dolcemente nevrastenica, una scrittura gentilmente crudele e le mille suggestioni di una corsa romantica e disperata tra gli ostacoli di una giovinezza che definire bohémien è un carezzevole eufemismo.

Photo: Bob Gruen

Dopo vari cambi di nome e formazione (inizialmente c’erano dentro anche Jerry Nolan, in uscita dai New York Dolls e poi negli Heartbreackers, e Fred Smith, che coinfluirà nei Television), i Blondie si assestarono quando finirono in squadra Jimmy Destri, al cui Farfisa si devono le infiltrazioni doorsiane nel suono, e lo spettacolare batterista Clem Burke, un ragazzino che metteva nelle rullate il battito selvatico della metropoli suonando col santino di Keith Moon in una mano e quello di Ringo Starr nell’altra. Completava l’organico Gary Lachman, metà poeta e metà filosofo, capitato per caso e per gioco nel gruppo prima di affermarsi come scrittore di successo.

Blondie“, l’esordio della band, teneva un’orecchio poggiato sull’asfalto della città che non dorme mai e l’altro rivolto alle produzioni spectoriane degli anni sessanta: ne venivano fuori canzoni imperlate di umori pop e sudore garage, ammiccanti senza essere frivole, vibranti di sensualità ma non civettuole, bizzarre e sfacciate, e sulla giostra dei Blondie salivano le beach songs e i girl group, il wall of sound e i block party, l’infatuazione per i B-movie, i comics e la fantascienza. “Blondie” era ghiaccio bollente, una passeggiata lungo quell’autostrada dell’umanità che era allora la Bowery con in sottofondo le Shirelles che rifacevano i Ramones. Una sciantosa bionda con un lato minaccioso, una Marilyn col broncio, Deborah Harry stava già imponendo un nuovo modello di rock’n’roll girl, fatto di intelligenza e sex appeal, malizia e strafottenza, sarcasmo e mistero, e quando saliva sul palco il CBGB’s diventava Hollywood. In poco tempo divenne una manna per i click di gente come Andy Warhol e Mick Rock, l’uomo che ‘fotografò gli anni settanta’, proprio qualche giorno fa passato per sempre a immortalare gli angeli (o il diavolo, vallo a sapere).

Blondie” era gonfio di ritornelli luccicanti incastrati tra racconti pulp e storie di seduzione (X-Offender), invettive e smancerie romantiche, come In the Flesh, un doo-wop cinematografico e sognante, mentre Look Good In Blue ne era il contraltare nervoso ed erotico. La chitarra twangy sfavillava sulla declamatoria Rip Her To Shreads, una bocca di fuoco contro i mistici del gossip, e il resto erano omaggi al pop scintillante dei sixties suonati con il beat urbano dei nuovi ribelli.Dopo, arrivarono il punk al Martini e Heart Of Glass, Rapture e l’hip hop, Call Me e American Gigolò, Maria e Giorgio Moroder, qualche milione di dischi venduti e il successo planetario : nel frattempo, Deborah Harry metteva rossetto e tacco dodici alla new wave, i Blondie erano uno dei gruppi più stilosi in città e suonavano la miglior party-music di quell’inverno che aspettava il ciclone punk.

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