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Back In Time

Sull’orlo di una crisi di nervi: “Warehouse: Songs and Stories”, l’ultimo atto degli Hüsker Dü

Dopo aver aggiornato agli anni Ottanta e all’hardcore punk i tumulti adolescenziali del Jimmy di Quadrophenia nel seminale “Zen Arcade“, gli Hüsker Dü aggiunsero ulteriori scariche d’immortalità al loro lacerante repertorio con l’orizzonte mobile di “New Day Rising” e “Flip Your Wig“, altri dischi da capogiro che portavano elementi almost pop al suono e contenevano le cellule del futuro alternative-rock.

Gli Hüsker Dü avevano capito che non si possono avere diciotto anni per sempre e che era arrivata l’ora di scavalcare il recinto spinato di un set sul quale rischiavano di rimanere intrappolati, ed era ormai manifesta la sfida che i tre di Minneapolis  avevano lanciato al caos pietrificato dell’integralismo hardcore. Senza rinnegare niente, chiaramente, solo la voglia di fare di quella scena un’incubatrice di opportunità e l’esigenza di liberarsi nuovi spazi suonando una musica dai confini più sfrangiati.

Candy Apple Grey” era, a questo punto, l’emanazione dei fermenti pop della band, uno scatto in avanti, un modo nuovo di raccontare le proprie storie, un’altra scommessa d’immortalità: fu il disco del ‘tradimento’, del peccato mortale, o almeno così venne percepito da molti l’addio alla SST e la firma con la Warner Bros., quando invece per gli Huskers era la necessità di percepirsi nel limite e insieme l’opportunità di portare l’underground in paradiso senza per questo ibridarsi con la picaresca normalità del mainstream. Gli Hüsker Dü erano ormai i Beatles dell’hardcore, col bassista Greg Norton a rappresentare il quiet one di turno e a tenere assieme l’angoscia alle anfetamine di Mould e gli slanci californiani del batterista scalzo Grant Hart. Se Bob Mould era il lato scuro della luna, l’esistenzialista depresso e feroce, Hart era quello che faceva entrare un pò di sole dalla finestra, quello che colorava fiori sul muro del suono delle chitarre : fin lì, la rivalità tra i due s’era parzialmente risolta in una specie di bulimia compositiva che li aveva portati a sfidarsi a colpi di songwriting, ma durante le registrazioni di “Warehouse: Songs and Stories” la tensione seppellì del tutto il pur minimo patrimonio di buone intenzioni lasciando solo detriti e reliquie.

Ciononostante, o forse proprio per questo, l’ultimo bollettino dal fronte del disastro era un febbrile capolavoro power-pop che raccontava di fughe e fallimenti, solitudine e frustazione, amore e orgoglio. Gli Hüsker Dü erano una rock’n’roll band sull’orlo di una crisi di nervi e “Warehouse: Songs and Stories” abbassava per sempre la saracinesca sulla loro avventura: rimaneva il ruggito innocente di queste venti canzoni e la loro matassa di bellezza e disperazione, di saggezza e follia. Del nichilismo hardcore dei primi tempi restava restava giusto qualche alito, il resto era l’urgenza di raccontarsi con un nuovo linguaggio. In “Warehouse: Songs and Stories” i due leader si dividevano penna e microfono e l’effetto d’insieme era potente e fragoroso, una scarica di fulmini in un cielo di pioggia, piombo e fantasmi.

Bob Mould era il chitarrista più veloce del Midwest e nella nevrosi della sua voce c’era tutta la malinconia del mondo: sua era la splendente tristezza di Standing In The Rain e No Reservations, la melodia perfetta di Could You Be The One, e le strette all’anima di Up in the air e Cold Cold Ice.Se il punk-rock di “Warehouse: Songs and Stories” era la trionfante declinazione in senso cantautorale della rivoluzione del ’77, il merito andava anche al tesoretto di melodie che aveva portato Grant Hart, il batterista punk dal cuore hippy con la testa persa tra le strade della San Francisco della summer of love.Dal suo amore per il pop dei sixties arrivavano le saltellanti Too Much Spice e She’s a Woman (And Now He Is a Man), l’omaggio alle radici del rock’n’roll di Actual Condition, la bellissima She Floated Away, più o meno i Pogues in gita a Minneapolis, e i botti finali della psichedelica You Can Live At Home.

Malgrado una produzione non proprio all’altezza, dentro queste venti canzoni c’era il dolore dell’onestà, mentre la melodia inseguiva la rabbia e i ritornelli pop sfidavano l’isteria: “Warehouse: Songs and Stories” era un duello all’ultimo decibel tra due cantautori sospesi tra euforia e depressione, e asfaltava quella strada dalla quale avrebbero poi preso la rincorsa per la gloria band come Pixies e Nirvana. I conflitti montati durante le registrazioni portarono la tensione fra i due leader a livelli insostenibili, e quando il loro manager e miglior amico David Savoy si suicidò senza un’apparente ragione, i tre rimasero praticamente senza difese emotive: di lì a poco l’annullamento del tour di presentazione dell’album e, a seguire, l’ormai inevitabile scioglimento.

Sogno finito, ognuno per la propria strada tra dischi solisti e nuove band ( i Nova Moba per Hart e gli Sugar per Mould) e Greg Norton a portare a spasso i suoi baffi a manubrio fra i tavoli di un ristorante. “Warehouse: Songs and Stories” si apriva con quella These Important Years che, trentacinque anni dopo, per molti di quelli che c’erano è ancora la canzone della vita.

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