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“The Idiot”, rinascita e salvezza di Iggy Pop, nel “quarto disco berlinese di Bowie”

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Non ho letto “L’idiota” di Dostoevskj, ma ho ascoltato “The Idiot” di Iggy Pop, che ne prese il nome su idea di David Bowie. Non mi è chiaro quindi cosa s’intendesse con questo riferimento. La foto in copertina ritrae Iggy in un atteggiamento comico, alla Charlie Chaplin: una cosa un po’ spiazzante se non fosse per il titolo, “idiota”, appunto. Alla fine, come dice scherzosamente Iggy, scegliendo questo titolo “Bowie voleva solo insultarmi”. In altri termini: la scelta del titolo fu solo un gioco.

Una riflessione che vale invece la pena fare su “The Idiot”, oggi che compie 45 anni, è se stiamo parlando di un disco di Iggy Pop o di David Bowie. Nell’industria odierna, dove ti pagano per stream (una miseria, almeno Spotify, ma questo è un’altro discorso) un disco così uscirebbe con doppio nome e anche il tour relativo. Al massimo si farebbe un Iggy Pop feat. David Bowie e ognuno si becca a testa da Spotify 1/6 di centa streame tutti felici (Spotify e la casa discografica, intendo).

Nel 1977 invece, al picco del boom discografico, Bowie poteva permettersi di apparire solo come produttore e autore ed essere ampiamente (immaginiamo) remunerato in anticipo per questo, così come per il fatto di suonare le tastiere nel successivo tour intestato all’amico. Insomma, fosse nato in un mercato diverso, oggi “The Idiot” non risulterebbe agli atti come il primo disco solista di Iggy Pop. A conferma, basterebbe ascoltare “Low”, la coeva release del Duca bianco, con la quale quest’opera ha molto più in comune, rispetto a tutto il precedente lavoro fatto dall’iguana con gli Stooges fino ad allora. Bisognerebbe quindi mettersi d’accordo se stiamo parlando del primo disco solista di Iggy o del quarto (il primo in ordine di produzione) disco berlinese di Bowie, città dove il disco fu mixato. 

Questa premessa non serve certo a sminuire il ruolo gigantesco di James Newell Osterberg Jr. aka Iggy Pop, in questo disco e, in generale, nella storia della musica. Serve solo a capire di cosa stiamo parlando. Bowie era in pieno controllo della situazione, anche commerciale e studiò infatti le cose in modo che il suo “Low apparisse nei negozi prima. Non voleva che si potesse pensare che “The Idiot” avesse influenzato “Low” e non viceversa. In realtà, nessuno dei due dischi aveva influenzato l’altro, erano semplicemente due facce della stessa medaglia, peraltro concepite e iniziate nello stesso periodo e negli stessi studi francesi del Château d’Hérouville. 

Il sound di cui stiamo parlando e che accomuna i due dischi, non assomigliava, come detto, a quello degli Stooges, ma nemmeno troppo a quello del Bowie precedente. Era un sound pieno di elettronica, sperimentazione, fortemente influenzato dal krautrock tedesco. “Una via di mezzo tra James Brown e i Kraftwerk”: secondo la descrizione di Iggy. In realtà, l’etichetta di Bowie, la RCA, aveva molti dubbi sul fatto che questo sound potesse mantenere il Duca Bianco in cima alle classifiche e, dopo averne ritardato l’uscita, tirò un bel sospiro di sollievo allorché “Low” giunse al numero 2 nel Regno Unito e fu allora che rilasciarono anche “The Idiot”, che a sua volta sarebbe arrivato a un rispettabile numero 30 in classifica.

Ma torniamo al titolare del disco. Terminati gli Stooges, Iggy aveva passato l’anno 1975 in California, tra droga, progetti musicali minori e il ricovero in un ospedale psichiatrico. Fu proprio Bowie a rimetterlo in pista portandoselo al seguito del suo tour tra febbraio e maggio del 1976. I due divennero inseparabili (ma non amanti, malgrado il superfluo gossip) e, a tour finito, si trasferirono a vivere a Berlino in un appartamento cercando di disintossicarsi: “Vivere in un appartamento di Berlino con Bowie e i suoi amici è stato interessante…” – ricorda Pop – “Il grande evento della settimana era il giovedì sera. Chiunque fosse ancora vivo e in grado di strisciare sul divano guardava Starsky & Hutch“. 

(c) Richard E. Aaron/Redferns

Passato il peggio in un modo o nell’altro, non saprei quanto disintossicati, in estate i due si misero al lavoro, prima in Francia e poi di nuovo in Germania, per il primo album solista di Iggy. L’opener Sister Midnight era già stata suonata nel suddetto tour ed era farina del sacco della solita coppia Bowie/Alomar, integrata dai testi di Iggy. Sarebbe effettivamente potuta apparire in uno dei dischi di Bowie di quegli anni: il groove è quello di “Station To Station”, ma il timbro vocale di Iggy gli dà un carattere tutto suo. Nightclubbing è un gelido resoconto, in puro stile bowiano, di tante serate passate bighellonando per club notturni: “Discoteche, stiamo girando per discoteche / Siamo una macchina per il ghiaccio / Vediamo persone nuove tutto il tempo / Sono una cosa che va vista”. L’altrettanto gelida Grace Jones 4 anni dopo ne farà la sua versione. La traccia ha un groove imbattibile che deve molto alla drum-machine che Iggy volle al posto di un batterista. 

Funtime è molto krautrock, o “periodo berlinese di Bowie”: andatevi ad ascoltare il secondo album dei Neu! e capirete molto di quel che frullava per le orecchie e la testa del Duca Bianco in quel periodo. Contemporaneamente, stava nascendo il goth-rock, anche grazie a questo disco e si sente. L’indicazione del produttore Bowie a Iggy era stata “cantala come una puttana che vuole fare soldi”. Baby è uno di quei momenti da cabaret che piacciono tanto a Bowie, con un sound anch’esso molto teutonico.

China Girl è il pezzo meno dark della raccolta, una tipica hit-song del miglior Bowie, che però scalerà le classifiche solo nella sua versione del 1983, compresa nel milionario album “Let’s Dance”. È la storia di una buca che l’iguana prese dall’affascinante vietnamita Kuelan Nguyen. Lei non parlava inglese e, di fronte, a un iper-eccitato Iggy che le dichiarava il suo amore, lo zittì per sempre con quello “shh…”. Una bella lezione per i pregiudizi di chi canta (a una vietnamita, si badi, non a una cinese): “La mia piccola ragazza cinese / Non dovresti prendermi in giro / Rovinerò tutto ciò che sei / Ti darò la televisione / Ti darò occhi azzurri / Ti darò uomini / Che vogliono dominare il mondo / E quando mi emoziono / Dice la mia bambina cinese / “Oh, Jimmy, chiudi solo la bocca” / Lei dice “Shh””. Sciovinista ma autoironico, Iggy improvvisò buona parte dei testi al momento in studio, cosa che avrebbe ispirato Bowie a fare lo stesso successivamente con Heroes.

Dum Dum Boys è la storia degli Stooges, piena di rimorso e nostalgia: “Cosa è successo a Zeke? È morto con Jones, amico / Che mi dici di Dave? / Crepato per l’alcool / Oh, cosa sta facendo Rock? / Oh, vive con sua madre / E Jack? / Si è dato una sistemata / Beh, tutto è più duro / Senza i Dum Dum Boys”. Fu sempre Bowie a incoraggiare il suo amico a scrivere della sua ex-band, mentre quello gli faceva ascoltare al pianoforte una idea di canzone. Fu poi chiamato il mitico sessionman Phil Palmer (da noi noto per l’assolo su Quel nastro rosa di Battisti)a sovrincidere le parti di chitarra. “Fu una esperienza vampiresca”, avrebbe poi raccontato il chitarrista: “con Bowie e Iggy si lavorava solo di notte”. Palmer è anche responsabile dei bellissimi ricami di chitarra che appaiono su Nightclubbing. Pare che Bowie avrebbe voluto Robert Fripp: pazienza, è andata bene comunque. Gli oltre 8 minuti finali di Mass Production sono uno dei momenti più alti del disco nel suo ipnotico e ripetitivo dispiegarsi e, retrospettivamente un’anticipazione del rock sperimentale e alternativo che sarebbe venuto decenni dopo con i Radiohead, tanto per citare una band minore.

Come disse Siouxsie dei Siouxsie and the Banshees: “The Idiot confermò il nostro sospetto, Iggy era un genio e che voce!”. Nine Inch Nails, Killing Joke, Joy Division sono altri gruppi che han dichiarato la loro devozione al disco. David Bowie nel disco suona tastiere, chitarre, fiati (non perdetevi il suo sassofono su Tiny Girls) e fa i cori. Si porta il suo “D.A.M. trio”: Davis alla batteria, Alomar alla chitarra, Murray al basso. Sceglie gli studi dove lavorare. Scrive la maggior parte della musica. Si fa aiutare dal solito Tony Visconti al mixing. Non è che fosse molto più sobrio di Iggy, ma aveva il controllo della situazione. 

In conclusione e tornando al punto di partenza, poco importa se stiamo celebrando il primo disco solista di Iggy Pop, o il pezzo mancante del periodo berlinese di David Bowie. Senz’altro, sono vere tutte e due le cose. Con questo disco, i due artisti hanno fissato un caposaldo dell’art-rock, dando a Iggy un successo che non aveva mai conosciuto con gli Stooges. Grazie anche al successivo tour, Iggy Pop tornò in pista, salvandosi il culo e la carriera e consentendosi altri 45 anni, finora, di musica, non sempre a livelli così alti ma, insomma, meglio così che se no poi i Måneskin non potevano farci quella roba che ci hanno fatto insieme. Tornando seri, “The Idiot” è solo l’inizio di una carriera in cui Iggy collabora spesso con altri cui lascia una bella parte della responsabilità creativa. Basti vedere alcune perle sfornate in questi ultimi anni: “Post-pop Depression” con Josh Homme; “Free” con i poco noti Sarah Lipstate e Leron Thomas; “Breathe” con Dr. Lonnie Smith. In tutto ciò, Iggy ha sempre mantenuto la sua personalità, la sua impronta forte pur passando per progetti molto diversi l’uno dall’altro. 

Quindi, anche questa volta: grazie David Bowie che hai vegliato su di lui (e su di noi con lui). Non su Ian Curtis, purtroppo: quando il leader dei Joy Division fu trovato morto, “The Idiot” girava sul piatto del suo stereo. 

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