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Back In Time

“Pornography”, naufragio e salvezza per i Cure

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Fu da “Seventeen Seconds” in poi che Robert Smith s’impose come il portavoce scarmigliato e malinconico di una nuova religione: mentre le piazze dei punk si erano ormai svuotate, per le migliaia di adolescenti spaesati che erano rimasti nella tiepida infelicità delle proprie camerette, i Cure arrivarono come una ricompensa. Una nuova categoria di ascoltatori s’aggrappò al senso di estraneità e insicurezza che le canzoni dei Cure evocavano, e il make-up slavato del cantante divenne la maschera da indossare nella recita della vita per schivarne le imboscate.

Three Imaginary Boys“, arrivato qualche mese prima, era il collegamento tra la fase delle covers alle feste di ballo e l’ascesa a Principe dei Depressi: Robert Smith aggiornava la grammatica del pop ai tempi del post-punk e se ne usciva con un album fondamentale non tanto per quello che era, ma per le possibilità che sbottonava. Al primo album, i Cure erano già in mezzo ad un crocevia: sfilare da subito sotto gli spalti del pop, o infilarsi nella nebbia e l’oscurità della nascente dark wave. Rimandarono la prima opzione, affidando la stagione umbratile della giovinezza a quello che era uno stato d’animo, prima che uno stile musicale.

Photo: Ebet Roberts

Pornography” era il quarto album della band del West Sussex, e sin dall’incipit di One Hundred Years svelava un umore da diagnosi di fine vicina : ‘….It doesn’t matter if we all die …’  era l’agghiacciante grido di benvenuto nell’autobiografia del dolore di Robert Smith. “Pornography” era il bollettino d’aggiornamento dal fronte del disastro: le tensioni all’interno del gruppo (col bassista Simon Gallup, sopratutto) e l’escapismo tossico e alcoolico amplificavano lo smarrimento agonico di uno Smith ormai privo di baricentro esistenziale. “Pornography” era una seduta psicoanalitica intensiva col sottofondo di una liturgia funebre, e la voce da amante tradito di Robert Smith amplificava il senso di vuoto e di abbandono di pezzi come A Short Term Effect e A Strange Day: chitarre nervose come un’attesa, il drumming tribale di Lol Tohlurst, tastiere gelide come una sentenza e un basso che era l’eco dell’inferno. L’armamentario dark ai piedi del muro del suono di Phil Spector, in equilibrio perfetto.

L’esistenzialismo malato di “Pornography” era, coi dischi dei Joy Division, l’apogeo della dark wave, e mentre Ian Curtis aveva ormai stretto il cappio attorno al proprio nichilismo, Robert Smith si fermava giusto a un passo dalla follia concedendosi un’altra possibilità, anche se le voci dall’oltretomba della title-track sembravano un invito al patibolo e l’aria che si respirava era da valzer d’addio. “Pornography” era uno sfiatatoio d’ansia e dissolutezza: The Hanging Garden , la goth song per eccellenza, era il singolo meno radiofonico della storia del rock, Siamese Twins era lo shoegaze prima dello shoegaze e The Figurehead era la celebrazione dell’auto disprezzo.

Prodotto da Phil Thornalley , scelto per il lavoro fatto con “Talk Talk Talk” degli Psychedelic Furs, “Pornography” era un delirio angosciato denso di suoni, visioni e presagi. Ad ogni allucinazione Robert Smith restituiva all’ascoltatore qualcosa di se stesso: troppo, per i critici laureati ai quali, tranne qualche eccezione, sfuggì la portata di un disco che trasformava la depressione in arte. Diversamente, il pubblico trovò in “Pornography” un mostro seducente, uno spazio in cui riconoscersi, un’ossessione analgesica, e spedì le paranoie di Robert Smith nella top ten delle classifiche inglesi.

Per i Cure era naufragio e salvezza insieme: avevano toccato il fondo dell’abisso, ora potevano uscire dai cunicoli della disperazione.

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