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Back In Time

Una maratona epica e visionaria: “Heaven Up Here” degli Echo And The Bunnymen

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Ian McCulloch disse che il secondo album degli Echo And The Bunnymen doveva essere il loro disco soul: finì che le intenzioni del cantante si persero dentro i vortici oscuri della chitarra di Will Sergeant, uno che in quel periodo la sera diceva le preghiere a Tom Verlaine in ginocchio sotto il poster di “Marquee Moon“. Ne venne fuori una maratona epica e visionaria, notturna e romantica: con “Heaven Up Here” gli Echo And The Bunnymen erano diventati la variante psichedelica della new wave inglese, e tra i festeggiamenti per la vittoria della Coppa dei Campioni e i tumulti di Toxteth, Liverpool tornava gloriosamente anche nelle cronache musicali con una band che asciugava le lacrime al post punk e anticipava molto di quello che sarebbe accaduto dopo, dagli Starsailor ai Coldplay, dai Verve ai Jesus And Mary Chain, dai Doves ai Radiohead.

Gli Echo And The Bunnymen erano usciti dal guscio di “Crocodiles“, l’album che ne fece da subito i padrini della nuova scena indie del Merseyside, ed ora suonavano una musica ipnotica e misteriosa come la foto di copertina, scattata su una spiaggia a Porthcawl, nel Galles, con un secchio di pesce usato per far avvicinare i gabbiani e fissare un’immagine che evocava inquietudine e serenità insieme. Le nuove canzoni erano paesaggi impregnati di un’inedita oscurità trasparente: “Heaven Up Here” entrava e usciva dal buio accompagnato dalle vampate chitarristiche di un Will Sergeant in piena trance creativa, e che già dalla premonitrice Show Of Strenght si prendeva il centro della scenaalmeno quanto le infusioni soulful della voce di Ian McCulloch.

Heaven Up Here” preparava il banchetto di nozze tra post punk e pop che si sarebbe poi consumato sotto il cerchio della luna assassina: qui c’erano la bellezza convulsa delle atmosfere e il chiarore di sfumature che ad ogni ascolto si scoprivano un po’. Quello degli Echo And The Bunnymen era già il post del post-punk, e le pose glamour del cantante con l’impermeabile anticipavano quello che poi avremmo chiamato britpop. “Heaven Up Here” evocava il passato (i Doors, sopratutto, ma anche i Velvet), ricordava il presente (l’arte dell’infelicità dei Joy Division, ormai New Order, e i Cure meno depressi), e premeva contro il futuro: Over The Wall era la canzone senza la quale gli Stone Roses non sarebbero esistiti, almeno a detta di  ‘Mac the Mouth‘, come veniva chiamato McCollouch per la propensione spregiudicata all’autoelogio e al giudizio tranchant nei confronti dei colleghi, come quando definì quella degli U2  “musica per idraulici e muratori ”. Con la sua meravigliosa ossessione per la Runaway di Del Shannon, Over The Wall mandò fuori di testa il grande John Peel: altrove, echi krautrock (All I Want), funky (It Was A Pleasure e With a Hip), nenie da trance acida (All My Colours),e il trucco stava nella coesione e l’equilibrio perfetto tra il basso circolare e ipnotico di Les Pattinson, le raffiche di batteria di Pete De Freitas e le chitarre liberate di Will Sargeant.

La voce implorante di Ian McCulloch recitava poesie stravaganti su bugie e desiderio, e sebbene fosse al massimo della tendenza al melodramma, sfuggiva all’autocommiserazione e al fatalismo bilanciando i picchi di sconforto con una visione meno geometrica del post punk britannico rispetto a quanti siedevano attorno alla stesso fuoco. L’irrequietezza controllata di “Heaven Up Here” portò la band nella Top Ten inglese, caso piuttosto anomalo per un disco che nascondeva le melodie sotto un flusso di psichedelia lunatica e spigolosa e il cui primo singolo, la maestosamente malinconica A Promise, si fermò al quarantanovesimo posto delle classifiche.

Per molti, “Heaven Up Here” restò il disco definitivo dei Bunnymen, anche quando il cielo cadde sulla terra portandosi dietro le meraviglie barocche di “Ocean Rain“.

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