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“At San Quentin” di Johnny Cash, il paradiso dei perdenti

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Fuorilegge tra i fuorilegge, la notte del 24 febbraio del 1969 Johnny Cash trasformò l’inferno del penitenziario di San Quintino in California nel paradiso di tutti i perdenti d’America: quando, al termine del bis di San Quentin, tutti i detenuti presenti salirono sui tavoli in una sorta di esaltazione collettiva, alle guardie carcerarie non restò altro che caricare i fucili e prepararsi al peggio.

Pur se in un clima a mezza via tra il disastro imminente e una nervosa gioiosità, lo spettacolo andò avanti senza degenerare, e per molti di quelli che erano lì fu il piacere di un’ultima sigaretta moltiplicato per mille. Aveva scelto lo stesso Cash di suonare davanti a quella platea di dannati a pochi metri dalla camera a gas: era il suo modo di espiare colpe e tormenti, e insieme la necessità di portare il conforto di una disperazione condivisa a quelli che chiamava ‘compagni di viaggio’, in fondo tra i pochi a potersi completamente riconoscere in quelle storie di peccato e perdizione, dolore e rimorso. Nel carcere più pericoloso d’America, Johnny Cash rompeva le barriere tra artista e pubblico, tra storia e leggenda, e il suo jailhouse country  era una terapia di gruppo.

All’epoca Johnny Cash era ‘pulito’, o almeno stava sforzandosi di esserlo, magari meno in forma rispetto a “At Folson Prison“, il live dell’anno prima, registrato sempre davanti ad un pubblico di dead men walking e grazie al quale tornò ad essere il ribelle più famoso d’America. Lo spettacolo restava comunque potente ed evocativo, con la band che manteneva le promesse del ghigno baritonale di una voce che era una guarigione. Il tempo di dare la mano agli occupanti delle prime file sotto il palco, e l’uomo in nero aveva già la sala in pugno: il classico saluto ‘Hello, I’m Johnny Cash’ e poi via, una dietro l’altra, Big River, I Still Miss Someone, Wreck Of The Old ’97, Darlin’ Companion dei Lovin’ Spoonful ( in duetto con la moglie June Carter, la sua ancora di salvataggio) , Wanted Man di Dylan, Folsom Prison Blues, la spassosa A Boy Named Sue, Ring Of Fire, I Walk The Line, sino al medley finale con la Carter Family e gli Statler Brothers.

Un trionfo. Rassicurante e maledetta insieme, la popular music di Johnny Cash faceva categoria a se: s’alimentava di solidarietà, rabbia, lividi, tormenti e desideri di vendetta. Là dove nessuno moriva di vecchiaia, la coscienza sociale di Johnny Cash puntava una lama di coltello alla gola dell’American Dream. C’era anche un lato ludico però, uno show nello show, con Cash che raccontava di una sua notte in prigione (una delle tante, a dire il vero)e ammoniva un cameraman della Granada Television di essere nella posizione sbagliata nel posto sbagliato. Piantati nel cuore dello spettacolo c’erano addii (al chitarrista Luther Perkins, morto da poco in un incendio e con Cash praticamente dai tempi delle incisioni per la Sun Records), imprecazioni ( censurate nella prima versione dell’ album), slanci spirituali (Peace In The Valley), sberleffi e istantanee che rimasero nella storia del rock’n’roll : la foto di Cash col dito medio alzato venne registrata proprio durante il concerto, ed era l’equivalente della chitarra bruciata da Jimi Hendrix al Monterey Pop Festival.

La prima edizione di ”At San Quentin” uscì con dieci pezzi, una miseria, poi nel 2000 ne vennero aggiunti altri otto rispettando l’ordine cronologico delle esecuzioni, fino all’edizione definitiva, con annesso DVD del documentario della Granada TV, con tanto di interviste a secondini e carcerati. Chi pensa che il country sia lustrini, Stetson e John Denver, è servito. 

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