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Boris – Heavy Rocks (2022)

2022 - Relapse Records
heavy rock

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Tracklist

1. She is Burning
2. Cramper
3. My Name Is Blank
4. Blah Blah Blah
5. Question 1
6. Nosferatou
7. Ruins
8. Ghostly Imagination
9. Chained
10. (Not) Last Song


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Non ho compreso il perché di una simile copertina fintanto che non è partita l’opener She Is Burning, seguita a ruota da Cramper. Lì si è schiuso un mondo, un mondo che va al contrario e recupera l’archetipo di rock laido, di glam sudicio e di quella sensualità che furono dei Cramps, giusto per fare un nome, con le parole “Luxorious interior” tonanti a far saltare le casse sulla seconda traccia in questione.

I Boris compiono 30 anni, e le candeline le piantano sul terzo “Heavy Rocks” della loro carriera. Su ogni altro epigono hanno marcato indelebilmente la propria attitudine e lo stare al passo con le sterminate influenze che hanno fatto del trio una delle band più influenti del mondo che vive nell’oscurità, quell’underground che ha perso sempre più peso in favore del nulla. Non sentirete mai un brano di Wata, Atsuo e Takeshi in uno spot del cazzo, perché per normalizzarli non basterebbe un barile di trielina. Ed eccoli ancora una volta seduti sul trono del rock, a guardare dall’alto gli altri dibattersi in maniera del tutto inconcludente.

Ma dicevamo, la sensualità. Questo il punto di partenza e di arrivo, il mezzo attraverso il quale vengono vagliate tutte le perversioni dell’essere umano, che siano sessuali o di natura introspettiva non fa differenza, l’importante è incastrarle sotto un tir lanciato alla velocità della luce su una strada lastricata di metallo rovente e asfalto che si squaglia ad ogni metro divorato dalla batteria. Le chitarre e il basso grondano sangue e liquido seminale, umori di un genere attualmente bistrattato da ragazzini incompetenti, pubblico ormai assuefatto al niente e una critica che…che lasciamo stare. Il rock e la sua quintessenza prendono forma in brani tirati e sfuriate incontrollate che si imbellettano con ritornelli a presa rapidissima, come fossero smalto per unghie del colore dell’inferno e che in alcuni casi riluce sotto le strobo di un rave techno abitato da soli demoni fuori controllo.

Quando la velocità fa spazio ad altro si alzano nubi sulfuree post-punk, la cui putredine si può quasi tastare, così forte da dare allucinazioni jazzcore, con quell’impareggiabile capacità di rendere un qualsiasi pezzo dal peso specifico del piombo melodico come una stella che esplode e lancia raggi cosmici a destra e a manca e mai e poi mai smette di essere pesante e asfissiante, infernale e incendiario, pur nei momenti più aleatori e sospesi, ché a guardar di sotto si vede solo ed esclusivamente il vuoto orribile della speme umana che si fa mostro succhiasangue, cantato da voci ultraterrene eppur palpabili, pronte a colpire in volto chiunque si metta sul loro cammino.

Uno sguardo tremebondo e febbricitante, in continua evoluzione anche quando pesca dal passato. In poche parole: implacabile.

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