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The Flatliners – New Ruin

2022 - Fat Wreck
punk-rock

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Tracklist

1. Performative Hours
2. Rat King
3. Big Strum
4. Top Left Door
5. It’ll Hurt
6. Oath
7. Recoil
8. Souvenir
9. Tunnel Vision
10. Heirloom
11. Under a Dying Sun


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Non sono solito utilizzare la prima persona singolare quando scrivo. Ma questa volta farò un’eccezione, perché – devo ammetterlo – prima di questa recensione non sapevo praticamente nulla dei The Flatliners. Eppure, girovagando per la rete in cerca di informazioni, scopro che sono una band melodic hardcore punk canadese, suonano insieme da vent’anni e non sono nemmeno troppo sconosciuti al pubblico mondiale. Evidentemente mi sono perso qualcosa nel tempo, ma va bene così: una sincera passione per la musica deve essere sempre foriera di una continua scoperta.

Ascoltiamo qualcosa, mi son detto. E beh, mi feci meraviglia e caddi vittima ingenua di un rapimento emotivo, che è continuato – anzi è aumentato – nell’ascolto del loro ultimo album, “New Ruin” (2022, Fat Wreck). Qui ci troviamo di fronte ad una iniezione di pura adrenalina, a 37 minuti e 56 secondi ricolmi di una ferocia dissonante, che rimane solo accennata nei precedenti lavori dei Toronto’s finest.

In un ritrovato connubio con la loro storica etichetta, i Flatliners confezionano un disco che sembra tirare le fila di due decenni di carriera, unendo il loro passato punk con l’anelito pop di “Inviting Light” e delle sonorità post-hardcore davvero mature. La voce di Chris Chresswell danza tra un piacevole pulito ed un corrosivo scream, mentre le chitarre – del frontman e del sodale Scott Brigham – si rincorrono nella costruzione di tutta una serie di riff serrati, aggressivi, immediati, talvolta cacofonici. Ma tutto questo non sarebbe possibile senza la sezione ritmica di Jon Darbey e Paul Ramirez, che tacitamente soggiace, come a non voler disturbare il galoppo delle sei corde.

D’altro canto, i testi sono pervasi da una fitta oscurità, la quale subdolamente si dipana al di sopra delle rovine del mondo moderno, evocate sia dal titolo che dalla copertina dell’album. Ad esempio, Heirloom va intesa – dice Cresswell – come una lettera d’odio alla generazione precedente, colpevole di aver addossato a quella futura un tributo emotivo ed ambientale non indifferente. Ma si sa, Spes ultima dea: e infatti a questo messaggio demoralizzante si oppone il genuino ottimismo di Under a Dying Sun, epica e pensosa conclusione del disco. Altrettanto mordaci le invettive di Performative Hours (e visto che abbiamo già messo in gioco la soggettività, vi dico che è la mia preferita), Rat King, Big Strum e Oath.

Insomma, i Flats tornano a casa con un enorme bagaglio di esperienze e mettono mano al loro armamentario con una chiara capacità di giudizio, generando quello che – finora – può definirsi il fiore all’occhiello della loro discografia.

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