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“Bone Machine”, il capolavoro dark di Tom Waits

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Bone Machine” fu il capolavoro dark di Tom Waits: era il rumore del diavolo che banchettava ai piedi del letto di un’umanità moribonda e quasi sollevata di non riuscire a sfuggire al proprio destino di brevità. Erano canzoni infestate da fantasmi e angeli vendicatori, omicidi e perversioni assortite, ascie macchiate di sangue, corvi grandi come aeroplani e leoni a tre teste.

Il romanticismo al bourborn col quale aveva cantato di birre calde e donne fredde, papponi e spacciatori di mezza tacca, regine dei marciapiedi e pachucos, nottambuli e disadattati suburbani che vendevano un litro di sangue per una mezza pinta di scotch, qua slittava in un ginepraio di incubi, visioni e presagi da libro dell’Apocalisse, e gli stessi personaggi dell’album perdevano quell’aura da innocenti criminali per fare il definitivo salto di qualità. Il vento caldo della Sesta Avenue che scaldava il cuore del sabato notte, diventava ora il fuoco della Geenna. Erano canzoni che avevano bisogno dell’oscurità per sostenersi , che chiedevano di annusare lo zolfo per alimentarsi, e pezzi come Earth Died Screaming  (con Les Claypool dei Primus)  e Such a Scream, ascoltati di notte, al buio, facevano davvero spavento.

Bone Machine” era la versione rumorista e scarnificata di “Raindogs“, e il ruminare ghiaioso della voce di Tom Waits non era stato mai così minaccioso, anche se, quando le canzoni riuscivano a scrollarsi di dosso quell’aria volutamente mefistofelica, venivano fuori scintillanti andature surf ( Goin’ Out West ) e un pò di ballate alonate dalla malinconia, con Keith Richards che cullava l’inquieta serenità della fatalista That Feel. Come ogni altro album del cantautore californiano da “Swordfishtrombones” in poi, “Bone Machine” era una corsa contromano e sfuggiva al lessico delle tribù rock del momento per reinventarsi di nuovo un proprio linguaggio, stavolta più ruvido ed essenziale, ancora meno lineare, roco ed aspro come il falsetto di All Stripped Down.

In “Bone MachineTom Waits era un incrocio tra un licantropo professionista e un osceno predicatore del profondo sud che mischiava la Bibbia con Blind Willie Johnson, William Faulkner e il gospel, Dylan e le murder ballads, il tutto tenuto assieme dalla natura sovrannaturale della voce di un demonio in calore. Per ogni incubo, un incantesimo: lo struggimento indicibile di Who Are You This Time, la morriconiana Black Wings e una Whistle Down The Wind (con il violino di David Hidalgo dei mai abbastanza considerati Los Lobos) che richiamava i tempi della Asylum. Dirt in the Ground evocava la Genesi e la storia di Caino e Abele, e I Don’t Want To Grow Up era il rimpianto per gli anni selvaggi e insieme il rifiuto dell’età adulta.

Registrato in un seminterrato di cemento di pochi metri per via degli echi che riusciva a rimandare, “Bone Machine” era un delirio lucido, uno spiritual corrotto, un folk blues deforme e dissonante. Un urlo primordiale sotto una pioggia di percussioni deviate. Ancora una volta Tom Waits si era sfilato dall’angolo delle aspettative e “Bone Machine” provava a decifrare le vite dei suoi personaggi da una prospettiva e con un lessico e un suono tutto sommato inediti. Cinque anni dopo “Frank’s Wild Years“, chi pensava ad un’anima ormai lubrificata dall’olio del matrimonio (con Kathleen Brennan, la sua Jersey girl), dei figli e tutto il resto, trovò invece in “Bone Machine”  il rimbombare di storie che giravano attorno alla morte e al macabro, al caos e all’arcano e ciononostante, o forse proprio per questo, venne accolto da un’ondata celebrativa che gli portò il Grammy Award come miglior album di musica alternativa del 1992, un’anticipazione del successo da rockstar raccolto poi dal più pacificato “Mule Variations“.

In “Bone Machine” c’era un’aria da disastro imminente, da fine di tutte le cose, e il grugnito della voce di Tom Waits evocava gli spiriti dei vecchi bluesmen per far loro suonare le trombe del giudizio universale.

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