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King Buffalo – Regenerator

2022 - Autoproduzione
psych rock / stoner rock / space rock

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Tracklist

1. Regenerator
2. Mercury
3. Hours
4. Interlude
5. Mammoth
6. Avalon
7. Firmament


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La cosa che mi fa più incazzare dei King Buffalo e del loro nuovo album “Regenerator”, uscito il 2 settembre scorso, è il fatto che il nuovo tour, almeno per il momento, ha escluso completamente il nostro paese. Nessuna data! Niente, nulla, non pervenuti! Cioè vi rendete conto dell’enorme trauma che mi state provocando? Non credo ne siate completamente consapevoli! Adesso io non so chi sia il vero responsabile di questo atto profondamente brutto (…ma brutto brutto!), ma qualcuno me ne dovrà rendere conto! Non è affatto corretto tutto questo.

E non lo è perché “Regenerator”, quinto album in studio della band di Rochester (NY) e terzo ed ultimo capitolo di quella trilogia della cosiddetta pandemia che i King Buffalo avevano promesso di ultimare entro lo scadere del 2021, già dai primi 9 minuti e 30 secondi della title track, è una cavalcata poderosa a velocità smodatissima. Intendiamoci, questo nuovo lavoro del trio composto da Sean McVay, Dan Reynolds e Scott Donaldson, non si può dire che sia il miglior album fin qui prodotto, ma caspita se riesce fin da subito a sollevarti di almeno mezzo metro da terra.

Regenerator” conferma le doti tecniche e strumentali della band, le scolpisce nella dura pietra dello stoner rock e nelle crepuscolari nebule grigio eteree dell’empireo psichedelico. Profondità spazio siderali. Solchi scavati da fiumi di magma incandescente. Sperduti paesaggi lontani. Immagini ora nitide, ora dai contorni sfocati. Dopo quattro EP, quattro album e una manciata di live, i King Buffalo godono ancora di una splendida salute e queste nuove canzoni ne sono dimostrazione. Indizi e prove ci sono tutte e alla difesa non sarà certo difficile dimostrare come il trio newyorkese abbia dato alla luce un album degno di essere divorato dall’inizio alla fine.

Ancora una volta la principale fonte di ispirazione proviene dagli anni ’70, una decade che continua ad essere una miniera di inesauribile ricchezza, ma c’è anche dell’altro! Negli arpeggi di Interlude si sente il profondo west dello zio Neil, nelle trame di Hours balenano in lontananza i torridi deserti stoner e su Mammoth spuntano i graffi di quella generazione grunge che torna ad essere riferimento per tanti (…non ha mai smesso di esserlo). Echi floydiani di assoli chitarristici che sarebbero potuti durare l’intera durata del disco volano alti tra colorazioni psichedeliche e vuoti d’aria space-prog.

Nelle morbidezze di Mercury si aprono riff saturi di effetti che piacerebbero molto a quel The Edge ieratico perso tra gli alberi di Joshua e a dire il vero non mancano neanche i rimandi alle atmosfere vagamente anni ’80 come in Avalon. Poi arriviamo alla traccia conclusiva dell’album, Firmament, un muro sonoro di oltre 9 minuti, dove nuovamente veniamo sommersi da massicce cavalcate chitarristiche che ci piombano addosso senza possibilità di fuga alcuna.

Impossibile non farsi trasportare. La testa inizia a dondolare avanti e dietro, a destra e a sinistra, gli occhi si chiudono e visioni di paesaggi lontani iniziano a prendere forma nella nostra immaginazione ormai completamente rapita. Un amico l’altro ieri mi ha chiesto perché la musica di oggi faccia così schifo. Gli ho detto che forse ne sta ascoltando solo una piccola parte, quella sbagliata. Era scettico. Gli ho fatto ascoltare questo disco. Dopo averlo ascoltato mi ha scritto subito, entusiasta. Forse un po’ di scetticismo è svanito.

La buona musica è ancora là fuori.

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