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Il re cremisi, un’entità che appare nel mondo da 50 anni in un documentario che ne ritrae i musicisti: “In the Court of the Crimson King”

Premetto che io sono fan dei King Crimson da sempre. Ossia, da quando ricordo di avere il dono della comprensione musicale. Non ero ancora adolescente quando già urlavo per la meraviglia di fronte a Larks Tongues in Aspic o a Islands. E non voglio nemmeno menzionare l’effetto su di me del disco di esordio del re cremisi: un album che non fa che crescere in me da qualche decade. In tutte queste decadi, mentre accumulavo ore di ascolto, concerti per il mondo, letture, ho immagazzinato una quantità di informazioni importante sulla band.

Premesso tutto questo, potrei essere un tipo difficile da sorprendere di fronte ad un documentario sulla band. “In The Court of the Crimson King” però mi ha sorpreso. Infatti, mi aspettavo una storia della band, come si fa in genere con i documentari musicali. Anche se, il sottotitolo lo diceva subito: “il re cremisi a 50 anni”, non “50 anni di re cremisi”, Questo è il documentario di Toby Arries: una fotografia della band arrivata al mezzo secolo di età, dei suoi membri attuali e passati e delle loro interazioni che, alla fine, girano sempre attorno alla figura centrale di Robert Fripp. Arries, che ha seguito la band in tour (compaiono nel film le date italiane di Roma e Pompei del 2018), è bravo nel ritrarre, attorno alla sua, le personalità dei membri dell’ultima incarnazione del re cremisi. Offrendo anche una serie di camei ad alcuni membri storici: Adrian Belew, Bill Bruford, Michael Giles, Ian Mc Donald, Peter Sinfield.

È forse un po’ inusuale per un documentario musicale concentrarsi più sui profili psicologici dei musicisti che sulla musica. Probabilmente, materiale video inedito dal passato non ce n’è più. Oppure se c’è, Fripp se lo tiene stretto per usarlo più avanti. Né c’è rimasto troppo da svelare sulla storia di una band celebrata da innumerevoli saggi. Quindi, voi fan di lungo corso come me, non aspettatevi rivelazioni sorprendenti da In The Court of the Crimson King. Che Adrian Belew rosichi perché vi siano ancora King Crimson dopo di lui, si sapeva, non viene rivelato qui. Che Fripp sia un eccentrico scorbutico, con un buon senso dell’umorismo, anche. E che, nel corso delle decadi, tanti suoi sodali non ne avessero sopportato il carattere dittatoriale, pure (“questa è la prima formazione dei King Crimson nella quale non c’è qualcuno che non sopporta la mia presenza”, racconta il chitarrista).

Aspettatevi semmai sorprese di tipo emotivo, come quando vediamo Ian Mc Donald (il polistrumentista scomparso lo scorso febbraio)quasi in lacrime, chiedere scusa a Fripp per avergli “spezzato il cuore” (come l’altro conferma) nel 1969, allorché lasciò il gruppo insieme a Michael Giles. Oppure, nei dettagli del dramma personale ed estremamente dignitoso di Bill Rieflin, qui colto negli ultimi anni della sua vita nella consapevolezza di una malattia terminale. Alla domanda sul motivo per cui ha scelto di trascorrere il tempo che gli rimaneva andando in tour, il batterista/tastierista risponde che suonare musica può ripristinare uno stato di grazia nel mondo, “almeno per un momento”: “Vedendo arrivare la fine della tua vita, può aumentare il senso di urgenza. È interessante notare come, mi pare si possa dire, l’urgenza sia una delle caratteristiche della musica dei King Crimson“. Fripp descrive Rieflin, morto nel 2020, come “l’unico mio amico personale che si sia mai unito ai King Crimson”.

Ho visto “In the Court of the Crimson King” a casa sul divano durante l’evento streaming di sabato 22 ottobre. L’evento era online solo per 24 ore o giù di lì. Ora, per vedere il documentario dovrete acquistare il doppio Blu Ray/DVD, che potete ordinare a questo link. Oppure, il 2 dicembre uscirà una versione più estesa, 8 dischetti, reperibile a questo link. Lascio a voi studiare i dettagli dei due prodotti. Non è chiaro tuttavia se i dischetti che si acquistano siano sottotitolati, almeno in lingua inglese. Particolare non trascurabile, a meno che si abbia una conoscenza perfetta dell’idioma. Io, che ne ho una più che buona, ammetto di avere fatto fatica con l’accento di alcuni protagonisti e di aver dovuto riavvolgere più di una scena.

Come dicevo, il film non rivela particolari novità sulla band. Lo dice lo stesso Fripp, perculando il regista (e gli spettatori) nelle ultime battute del documentario: “c’era un momento di rivelazioni sul passato e sul futuro della band e tu te lo sei perso, rendendo questo DVD inutile”. A parlare così è la superiore ironia di un chitarrista ultra settantenne che ogni mattina si fa una doccia fredda, nonostante il suo corpo non voglia, anzi proprio perché non vuole: “obbedisci”, è il messaggio che Fripp, nella sua personale “discipline”, recapita al corpo ogni giorno.

Altri momenti interessanti dello streaming vi sono stati durante la sessione finale di domande e risposte live a cui il chitarrista si è sottoposto e che non troverete nei dischetti in vendita. Oltre a ripetere i suoi tanti “principi” e istruzioni per la vita e per la musica, Fripp ha raccontato di John Wetton e di come i due si siano riavvicinati negli ultimi anni della vita del bassista/cantante (morto nel 2017), allorché quest’ultimo ha ammesso di essere (o esser stato) dipendente dall’alcol e da “altre sostanze”. Un momento toccante, direi più di quello immortalato nel film in cui vediamo Fripp piangere al ricordo della sua guida spirituale, JG Bennett: la scena sorprende sì, ma non commuove, un po’ per l’inespressività del chitarrista un pò perché rimangono ignoti i motivi del suo pianto.

Ma almeno Fripp è umano: questo sì è un risultato che il film consegue. Far capire a noi fan da sempre che colui che, come dice Adrian Belew il rosicone, per migliaia e migliaia di fan adoranti è “dio”, è in realtà uno di noi. Piange come noi, fa amici come noi, ama la sua compagna di vita (Toyah) come noi e, sempre nella Q&A finale, si è dilungato nel cantarne le lodi. E sono umani Rieflin, che difatti non c’è più, Jakksyk, Mastelotto, Collins, Stacey. Permangono dubbi su Tony Levin e Gavin Harrison che, sarà un caso, non si rivelano più di tanto al regista. Forse loro no, non sono umani eventualmente, come ci pare ogni qualvolta torniamo a sentirli all’opera.

Eppure, non è questo il punto, sembrano suggerire Fripp e Arries in questo documentario frutto della chimica instauratasi tra loro in anni di riprese e editing, inclusa una prima versione abortita del film (di cui alcuni estratti sono compresi nei dischetti in vendita, sotto il significativo titolo “Cosmic F*KC”). Il punto è che King Crimson è un’entità con una sua personalità; esiste, quasi fisicamente e Robert Fripp la vede apparire ogni tanto e ha citato pure date e luoghi di queste apparizioni nel corso delle decadi. La prima volta fu, ovviamente, nel 1969, mentre lavoravano al disco d’esordio. Un’altra apparizione interessante fu quella del 1981, dopo anni di assenza, nella macchina che portava Fripp a casa di Bill Bruford, a lavorare con Belew e Levin sulla musica poi contenuta in Discipline.

Sulla realtà di queste apparizioni, il chitarrista non ci chiede di credergli, anzi ci dice di non credergli ma lui sta raccontando solo la sua esperienza, si schernisce. Quindi King Crimson ha una vita sua. E i musicisti non sono altro che i medium attraverso cui la musica di King Crimson giunge a noi. Medium che, spiega il chitarrista, devono abbandonare il loro ego nel corso dell’esecuzione musicale, per non comprometterne gli esiti e incorrere nella sua furia: “è come assistere alla morte di mia madre ed è come se uno della band ne fosse responsabile”. Eppure, malgrado questa spersonalizzazione e immanenza dell’entità “King Crimson”, quando qualcuno ha chiesto a Fripp se riterrebbe possibile una incarnazione della band senza di lui, la risposta è stata un secco e sonoro: “no”.

Regia: Toby Arries
Genere: documentario musicale
Anno: 2022
Paese: Regno Unito
Cast: membri attuali e passati dei King Crimson
Data di uscita: 11 novembre 2022 (DVD/Blu Ray/CD)

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