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Jaga Jazzist – Pyramid

2020 - Brainfeeder
nu jazz

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Tracklist

1. Tomita
2. Spiral Era
3. The Shrine
4. Apex


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Non si può sempre stupire. Lasciare di stucco è un’arte che i Jaga Jazzist conoscono bene. O forse dovrei dire conoscevano? Il grande amore che nutro per l’orchestra futuristica dei fratelli Horntveth non è mai stato un segreto (tanto da portarmi a scriverne un articolo tutto sentimenti), ma è inevitabilmente giunto ad una battuta d’arresto.

Sono cambiato io o sono cambiati loro? Verrebbe da dire che entrambe le soluzioni sono ampiamente valide, se non fosse che i JJ hanno smesso di cambiare. Saltano da un decennio del passato all’altro senza più evolversi in nulla, solo ripiegandosi su se stessi. Se con “One-Armed Bandit” e “Starfire” aveva funzionato egregiamente (o quasi) con “Pyramid” la macchina del tempo s’è inceppata a cavallo tra ’70 e ’80 non sapendo più dove stare, con l’ago fisso a metà strada tra i due decenni. 

La materia che l’ensemble norvegese si ritrova a modellare è praticamente la medesima degli ultimi due album, con composizioni sempre più lunghe e votate alla spazialità, tra synth che si espandono in verticale sul resto degli strumenti, ottoni sempre più rarefatti e dilatati, ritmiche asciutte e compresse in contesto agrodolce che punta al magniloquente e mette in moto sentimenti delicati di chiara matrice nostalgica.

I suoni si sono standardizzati, con la scuola scandinava sempre più diluita in un suono univoco buono per tutte le realtà nu-jazz, soul o in qualsiasi modo preferiate chiamarle (a casa Brainfeeder gli esempi sono molteplici). Non che non siano godibili certe svisate uptempo, funkadeliche e r’n’b sparse qua e là sporadicamente, ma francamente sembra più un mero esercizio di stile che il lavoro di un gruppo di esploratori in tuta spaziale alla ricerca di nuovi mondi inesplorati. È bello, sì, ma è tutto tranne che stupefacente. Fa eccezione giusto l’incursione nel mondo di “Tron” della bella Apex, un gioiellino Eighties che prende le distanze dall’immobilità del resto col suo portamento hyper-synth spedito e patinato.

Pyramid”, mi duole il cuore doverlo dire, è un bel suppellettile retro-manieristico e sembra quasi l’uscita forzata di una band seduta sui propri fasti. Sono ben lontani i tempi dello skyline di Oslo, purtroppo. D’altronde, come dicevo, si cambia.

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