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Matmos – The Consuming Flame: Open Exercises In Group Form

2020 - Thrill Jockey
sperimentale

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Tracklist

Disc 1 – A Doughnut In The Sky
Disc 2 – I’m On The Team
Disc 3 – Extraterrestrial Masters


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Quando si sente nominare il monicker Matmos già si sa che non si sta parlando solo di musica in quanto tale, ma di installazioni artistiche, come d’altronde tutto l’excursus del duo composto da M.C. Schmidt e Drew Daniel. Riprova ne sono “Ultimate Care II”, disco creato utilizzando i suoni estrapolati da lavatrici Whirlpool e l’ultimo “Plastic Anniversary” in cui i due di San Francisco (residenti in quel di Baltimora) si sono lasciati prendere dall’estasi della plastica, architettando il tutto attraverso il suono di oggetti costituiti del tanto inviso materiale. Ecco, già questo fornirebbe l’idea base di qualsiasi progetto a venire firmato Matmos, l’ineluttabile sicurezza che Martin e Drew sono in grado di spingersi sempre così tanto oltre da trascendere la musica in sé e di per sé.

Per chi è avvezzo all’eccesso in ambito artistico credo sia già fan dei Matmos e dei loro esperimenti estremi. Sarò più chiaro: quando parlo di eccesso, intendo anche in termini numerici, non solo meramente musicali, che so, pensate alle orchestre da cento chitarristi di Glenn Branca, i 77 Boa Drum dei Boredoms, ecco se avete presente ciò di cui sto parlando siete pronti ad affrontare l’ascolto di “The Consuming Flame: Open Exercises In Group Form”. Perché?, vi starete chiedendo. Ecco la risposta:

Nell’immagine precedente potete ammirare la moltitudine di artisti (non contateli, sono 99) che hanno preso parte alla messa in atto di quella che è, a tutti gli effetti, la summa di tanti esercizi in libertà. Sì, perché il nucleo di questo ensemble espanso non ha mosso alcun tipo di richiesta, né dato indicazioni specifiche ai membri aggiuntivi, se non che ogni frammento fosse a 99 bpm. Tra i tanti nomi coinvolti spiccano quelli dei Mouse On Mars (altro duo totalmente fuori fase, al pari dei Nostri), Daniel “Oneothrix Point Never” Lopatin, Terence Hannum dei Locrian, l’addetto alle parti elettroniche degli eroi grindcore Pig Destroyer Blake Harrison, gli Yo La Tengo al gran completo, la leggenda vivente dell’industrial, già mastermind del progetto Foetus e antico partner in crime dei Coil J.G. Thirlwell, Clipping., David Grubbs (dal lontano passato post-rock dei Gastr Del Sol) e molti altri, tra artisti concettuali/visuali e collaboratori di vecchia data.

L’inconcepibile risultato a cui assistiamo renderebbe felice Burroughs, che della tecnica cut-up fu pioniere, poiché ci troviamo dinnanzi ad un lavoro di collage organico e al contempo impossibile da concepire, un lavoro di sovrastrutture disumane, capace di miscelare sapientemente il pensiero di Edgar Varese alla sperimentazione di John Cage, la house minimale di Chicago e vampate world music, il tutto sotto il segno inimitabile dell’elettronica matmosiana ed elementi inusitati persino da queste parti.

Il primo disco si distingue per l’ampio utilizzo di un groove etnico, di un Paese che non esiste in un Continente che ha le sue radici in una dimensione alternativa. Luminoso, ritmato, pieno zeppo di percussioni ora plastiche (qualcosa è rimasto dal disco precedente), ora metalliche, piani preparati che scoppiano e si rifugiano altrove, voci tagliuzzate e inchiodate a bacheche metalliche, tratteggi intonati, batterie jungle che collidono con altri ritagli incomprensibili e incursioni jazzistiche, alienazioni folkazoidi e una sequela infinita di amenità inintelliggibili rese fruibili dalle sapienti mani dei due per essere di nuovo distrutte e riassemblate, in un martirio di beat senza fine.

Della luminescenza e del formalismo di ciò che si ascoltato finora non v’è traccia nel disco intermedio, decisamente più aggressivo e atonale già dalle prime battute, resta un vago sentore ritmico qui allucinato in tempi dispari, come se il percorso si squagliasse sotto un sole digitale racchiuso tra le pareti di un ambiente asfissiante. Mostri a 8-bit si fanno largo tra abbagli motorik e recrudescenze free jazz con sassofoni a strappo che si abbattono su rovine elettronicheggianti, allupate digressioni in cui hip hop e fusion spaziale convivono placide disturbate di quando in quando da raffiche di fuoco di fila industriale (al punto da rendere il suono d’apertura di Netflix parte integrata sullo “spartito”). Le voci qui hanno il compito di creare un trait d’union univoco tra tutti i tasselli, creando una narrazione poliglotta, sì, ma in un nuove lingue inedite.

Su “Extraterrestial Masters” – questo il nome del terzo dischetto – è come se la materia grezza lasciata pascolare libera nel non-mondo dell’album si raggruppasse in un solo punto, concentrato al massimo. Piogge melodiche, non meno astratte ma capaci di dare un senso alla continuity, si spostano tra synthetismi algidi e folli spicciolate country a braccetto con materiali spaziali vaganti in orbita, pronti ad abbattersi su cavalcate soul sulle rive del Mississipi pronte a tramutarsi in languide vedute dall’alto di Tron sporcate qua e là da virus doo-wop, perché no? Mancava solo questo.

Gli stessi Matmos definiscono l’album al pari di un viaggio in treno: esattamente come il viaggiatore di lunghe tratte vede il paesaggio cambiare di continuo, così accadrà all’ascoltatore, che finirà però stremato dai cambiamenti repentini e dalle ripetizioni folli ivi presenti. Una cosa è certa: il duo è stato maestro nel rendere coerente una sì folle quantità di materiale. Non è però roba da far suonare nello stereo, né attraverso le casse del computer, men che meno dallo smartphone, starebbe meglio in una sala multimediale al MoMa. Non che sia un male, sia chiaro.

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