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“Spotify: pagaci”: dall’America la protesta globale dei musicisti contro il gigante dello streaming

In una recente intervista di Impatto Sonoro ai Mogwai, i membri della band scozzese si sono appellati ai fan: “comprate il nostro cazzo di disco o noi moriremo e le nostre famiglie soffriranno la fame”. Non è uno scherzo; è un appello serio e che fa riflettere. La pandemia, lo sappiamo, è un dramma economico per tantissimi che hanno visto le loro attività fermarsi. Tra questi, in tutto il mondo, i musicisti che hanno dovuto sospendere le attività live. Nell’economia odierna, gli artisti che amiamo sostengono sé stessi e le loro famiglie più grazie ai concerti che ai dischi. Il contrario di quanto accadeva prima di internet, ai tempi del “supporto fisico”. Globalmente, il giro d’affari della musica live, nel 2019, è stato di circa 20 miliardi di dollari, più o meno quello della musica registrata. Ma, per qualche motivo, nel caso dei concerti, la fetta di torta che va agli artisti è maggiore.

Causa pandemia, il 2020 è stato drammatico per il settore live: Live Nation, un colosso mondiale del settore, ha dichiarato una diminuzione dei ricavi del 98% nell’anno. In America, persino nomi grossi come David Crosby hanno ammesso che, senza concerti, non ce la fanno e, “per mantenere la famiglia e pagare il mutuo”, ha venduto i diritti del suo catalogo: “è la mia unica opzione…non posso lavorare (fare concerti) e lo streaming si ruba i soldi che facevo con i dischi”. In Italia, un vecchio rockettaro come Dome La Muerte ha chiesto l’applicazione della legge Bacchelli, che sostiene gli artisti di chiara fama in difficoltà economica (potete firmare la petizione qui): “spero che questa richiesta possa essere utile a me e anche agli altri che non sanno come andare avanti”.

Da almeno 5 anni, il fatturato dell’industria della musica registrata e’ in crescita costante, com’è possibile allora che gli artisti si trovino in queste condizioni? Per rispondere alla domanda, nel Regno Unito, il Parlamento ha stabilito una commissione d’inchiesta sulla “Economia dello streaming musicale”. La premessa da cui parte l’inchiesta è: “lo streaming musicale nel nostro paese ha generato oltre un miliardo di sterline di ricavi con 114 miliardi di streaming nell’ultimo anno, eppure agli artisti arriva solo il 13% del reddito generato”. Artisti come Ed O’ Brien dei Radiohead e Nadine Shah sono stati ascoltati. Nadine ha raccontato cosa sono stati per lei l’arrivo della pandemia e la sospensione dei concerti: “Mi son detta: dai Nadine, andrà bene, sei stata nominata per un cacchio di premio Mercury, hai oltre 100.000 ascoltatori su Spotify. Potrai pagare l’affitto”. Nel giro di qualche mese, Nadine non poteva più pagare l’affitto ed è dovuta tornare a vivere dai genitori: “Non proprio fichissimo per una rockstar trentenne”, commenta con amarezza.

Come dicevamo, grazie allo streaming, che ha avuto il merito di farci smettere di ascoltare musica digitale piratata, dopo anni di crisi, l’industria musicale è tornata a crescere, tornando nel 2019 ad un giro di affari equivalente a quello del 2004: 20,2 miliardi di dollari, di cui l’85% generato dallo streaming. Le prime stime disponibili per il 2020 parlano di una ulteriore crescita, fino a 22 miliardi di dollari.

Lo scorso settembre il numero degli abbonati paganti ai servizi di streaming è arrivato a 400 milioni nel mondo, un enorme incremento di quasi 100 milioni rispetto al 2019. Di questi, oltre il 30% appartengono a Spotify; Apple Music, Amazon Music e Tencent (leader in Cina), si dividono un altro 43% circa, lasciando le briciole agli altri. In un mercato siffatto, Spotify è un attore dominante con cui non si può non fare i conti. In interi mercati, come l’Italia, se non sei su Spotify, semplicemente non esisti come musicista. Sapete quanto paga Spotify gli artisti? 0,0034 dollari per stream in media. Ossia, se i 100.000 follower di Nadine Shah, ascoltano (ipotizziamo) 5 sue canzoni al mese in media, generando 1/2 milione di stream, Spotify paga 1.700 dollari al mese. Ma i 1.700 dollari non vanno a lei. Tra Nadine e Spotify c’è di mezzo, una grande casa, una major, che ha fatto un contratto con Spotify, i cui dettagli Nadine non necessariamente conosce, per pubblicare la sua musica sulla piattaforma. Quindi a Nadine Shah arriva, se le va bene, la metà della cifra pagata da Spotify. Inoltre, quel 0,0034 è una media tra i diversi artisti e viene calcolato secondo un sistema di pagamento talmente complesso che, se volete cercare di capire come funziona, sulla rete trovate una spiegazione di 48 (quarantotto) pagine. E anche se le leggete, ancora non saprete quanto ogni singolo stream della musica che intendete pubblicare su Spotify vi verrà pagato e non è detto che sia 0,0034 cent. Magari sarà meno, come capita probabilmente anche a Nadine. In virtù di un sistema di calcolo chiamato “pro-rata”, gli artisti che hanno più stream e che sono generalmente rappresentati dalle major, ottengono fette sempre più grandi del profitto a disposizione. Il 90% del profitto distribuito da Spotify va a 43.000 artisti soltanto, secondo i dati distribuiti dalla stessa compagnia. E gli altri milioni di artisti, si dividono il restante 10%. Abbondano in rete le denunce di artisti che raccontano di ricevere pagamenti irrisori a fronte di centinaia di migliaia o milioni di streaming, per non parlare dei ritardi nei pagamenti.

Questi sono i motivi per cui i Mogwai chiedono ai fan di COMPRARE l’album, non di ascoltarlo. Il mercato della musica è in crescita (“Il boom della musica sta arrivando” titolava il Journal of Music a gennaio), i profitti dello streaming crescono, ma gli artisti soffrono. Un gruppo di artisti americani ha allora costituito lo scorso anno un sindacato, UMAW (Union of Musicians and Allied Workers), e ha lanciato la campagna “Justice at Spotify” che porta alla piattaforma tre richieste, visibili sul loro sito web e che sintetizziamo di seguito:

1) “Pagaci”. Innanzitutto, pagaci almeno 1 cent per stream, così come altre piattaforme fanno (lo fanno Amazon Music Unlimited, Napster, Tidal e Qobuz che addirittura ne paga 4). In secondo luogo, cambiate il sistema “pro-rata” con un sistema “user-centric”. Un sistema adottato recentemente da Deezer e da Soundcloud e che, è stato dimostrato, distribuisce più equamente i profitti a favore degli artisti meno popolari.

2) “Sii trasparente”. Pubblica gli accordi con le case discografiche così che sappiamo cosa prevedono per il compenso agli artisti. Facci sapere quanti sono e da dove vengono tutti i tuoi guadagni (che non derivano solo dagli abbonamenti). Rendi pubblico e termina il sistema di “bustarelle” che consente alle case di pagarvi per promuovere certi stream piuttosto che altri, senza che gli artisti ne siano al corrente (questa è una vecchia pratica per l’industria discografica che una volta allungava le bustarelle ai dj delle radio per far trasmettere certe canzoni). Indicate gli accrediti di tutti gli artisti coinvolti nella musica.

3) “Smetti di andare contro gli artisti”. Ossia, smetti di promuovere cause legali per ridurre i pagamenti dei diritti agli artisti. In particolare, ha destato scalpore la decisione di Spotify (e di altre piattaforme) di ricorrere ad un tribunale per non pagare le maggiorazioni dei diritti d’autore stabilite dalle autorità statunitensi. Impatto Sonoro ha contattato gli attivisti di UMAW, che ha convocato una protesta in presenza fisica, il 15 marzo, davanti alle sedi di Spotify di tutto il mondo, compresa Milano.

Ha risposto alle nostre domande Damon Krukowski, noto oltre che per la sua lunga carriera di musicista (Galaxie 500, Damon & Naomi), per quella di scrittore attento all’evoluzione dell’industria musicale (“Ascoltare il rumore” è edito in Italia dalle edizioni Sur).

Innanzitutto, chi è la UMAW? Qual è il profilo dei vostri attivisti? Tutti musicisti?

Siamo un nuovo gruppo di musicisti indipendenti e altri lavoratori della musica (ingegneri, dipendenti delle etichette discografiche e dei locali e così via) che non sono rappresentati da nessun sindacato esistente. Qui negli Stati Uniti, abbiamo una distinzione legale e fiscale tra “dipendente” e “lavoratore autonomo”: i musicisti e molti altri lavoratori dell’industria musicale non sono “dipendenti” perché non vengono pagati con un salario. Ciò significa che tocca a noi pagare la nostra assicurazione sanitaria e le tasse sul lavoro autonomo e non possiamo beneficiare delle indennità di disoccupazione tra un lavoro e l’altro. Quindi, quando il COVID è arrivato e tutti noi abbiamo perso i nostri guadagni dai concerti, non avevamo i requisiti per alcun aiuto governativo. Un gruppo di noi che aveva già lavorato ad altre campagne politiche si è riunito per aiutare a fare pressione sul governo affinché includesse “lavoratori precari” come noi nei piani di ristoro previsti per gli effetti della pandemia. E ha funzionato, almeno per molti di noi! Non ci sono qualifiche per l’appartenenza a UMAW oltre a essere un lavoratore musicale. Nessun capo, come in qualsiasi sindacato.

Perché la vostra protesta è diretta solamente contro Spotify? Non è l’unica piattaforma che paga meno di un cent a stream e che fa accordi opachi con le case discografiche alle spalle degli artisti.

Spotify domina sia il mercato che l’immaginario dello streaming e ci paga anche  peggio di tutti gli altri. Apple Music paga circa il doppio delle tariffe di Spotify. E un’azienda come Tidal sta già pagando il centesimo per streaming che chiediamo a Spotify. Spotify è anche l’unica società di streaming musicale che regala il nostro lavoro gratuitamente – questo è un accordo “segreto” che hanno stretto con le tre etichette dominanti (le “major”), in parte dando loro quote di proprietà della società. Spotify utilizza l’abbonamento gratuito per aumentare la propria quota di mercato, ma man mano che questa quota cresce, il costo dell’abbonamento medio pagato per utente sta effettivamente diminuendo! Le nostre royalty non crescono, non importa quanto cresca l’azienda.

Tra le vostre richieste a Spotify c’è quella di triplicare i compensi per stream agli artisti. Non è poco. Cosa vi fa pensare che l’azienda abbia i margini per triplicare questi pagamenti? Qual è la percentuale che Spotify tiene per sé?

Un’altra delle nostre richieste è la trasparenza. Nessuno sa come funzionano davvero le finanze di Spotify, perché ci parlano solo dell’abbonamento e delle entrate pubblicitarie. Sappiamo che stanno raccogliendo enormi quantità di dati: li stanno vendendo? Sappiamo che accettano soldi in cambio di servizi, per esempio dando la priorità a certa musica nei loro algoritmi. Prima di tutto, dovrebbe essere illegale come già lo è per le radio e poi: quanto ne ricavano? Quali sono le loro altre fonti di reddito? Affermano di perdere soldi ogni anno con la musica. Allora … cosa ci fanno in questo settore? Non sono un’organizzazione di beneficenza. Secondo noi, se non possono pagare la nostra musica in modo equo, dovrebbero uscire dal mondo della musica. O forse non ci sono davvero dentro comunque?

Il sistema di pagamento di Spotify è estremamente complicato. Io mi sono dovuto studiare 48 pagine per capirci qualcosa. Potete spiegare ai lettori, in poche parole, la vostra richiesta di passare a un sistema “user-centric” e perché questo beneficerebbe i piccoli artisti?

Il sistema incentrato sull’utente funzionerebbe nel modo in cui la maggior parte delle persone presume che già funzioni: i musicisti che ascolti vengono ricompensati con una parte del denaro che paghi per l’abbonamento. Ha perfettamente senso, ma non è così che funziona adesso. Il sistema istituito da Spotify e dalle maggiori etichette discografiche si chiama “pro-rata” e funziona mettendo insieme tutti i soldi degli abbonamenti, quindi dividendoli in base alla percentuale dei flussi totali detenuti da ciascun artista. Sembra che potrebbe risultare come incentrato sull’utente, ma non è così. La differenza? Sorpresa! E’ vantaggioso per quelli in cima alla piramide: gli artisti più popolari, di solito sotto contratto con le grandi case. Di nuovo: chi ha progettato questo sistema?

Nel passato alcuni grossi nomi, come Taylor Swift, hanno lasciato Spotify, proprio per protesta contro il loro sistema di remunerazione degli artisti. Ma poi sono sempre rientrati. Perché accade questo? È evidente che se persino i grossi nomi non possono più fare a meno di Spotify, il potere negoziale degli artisti con la piattaforma appare molto ridotto.

Qui negli Stati Uniti, lo streaming rappresenta ora l’83% del fatturato di tutta la musica registrata. Tutta. Ciò lascia solo il 17% per radio, radio digitali, licenze di sincronizzazione per film e tv e supporti fisici. Non c’è quasi nient’altro. Quindi anche un artista come Taylor Swift deve utilizzare questo sistema. È tutto quello che abbiamo adesso!Quanto al potere negoziale, è proprio per questo che stiamo formando un sindacato. È il classico problema del lavoro: non abbiamo potere individualmente, solo collettivamente. Vogliamo un posto a tavola: i musicisti non ne hanno avuto uno finora.

Per quanto si possa ritenere che il modello di Spotify sia ingiusto, non è irrealistico pensare che tutti o quasi gli artisti presenti sulla piattaforma possano avere una carriera economicamente sostenibile per sé e le loro famiglie, vivendo di musica registrata?

Sono gli stessi manager di Spotify ad affermare di voler fornire un reddito vitale a un milione di artisti. Ma finora, possono citare solo 7.500 account con un guadagno lordo di $ 100.000 o più all’anno. Lordo, non netto. E questo è a livello globale: 7.500 per il mondo intero. Si tratta di circa lo 0,094% degli artisti la cui musica è sulla piattaforma. Probabilità molto, molto scarse di farcela! Questo semplicemente non è un sistema progettato per sostenere un’ampia comunità di artisti.

A parte il problema Spotify, qual è secondo voi il modello da seguire per una economia della musica sostenibile per gli artisti? Certo, c’è il modello Bandcamp. Ma richiede per l’utente una spesa ben superiore a quella necessaria per un abbonamento streaming, e non tutti i fan, possono o vogliono farsene carico. Se Spotify, e le altre piattaforme accogliessero tutte le vostre richieste sarebbe sufficiente?

Se Spotify pagasse compensi più alti, fosse trasparente sui propri algoritmi e smettesse di combattere gli sforzi degli artisti per affermare i nostri diritti sulla nostra musica, già farebbe molto per rendere questo sistema più sostenibile. Ma dobbiamo guardare anche ad altre alternative. C’è troppo potere in questo momento in quest’unica azienda, specialmente quando lo si combina con gli interessi delle principali etichette, perché possa esistere o svilupparsi un sistema sano. Agiscono come un cartello e sopprimono la concorrenza.

Come va l’organizzazione della protesta del 15 marzo, particolarmente quella di Milano? Al riguardo, avete qualche cosa da dire ai nostri lettori che vogliano sostenervi?

Personalmente, non mi occupo dei dettagli della pianificazione della protesta, ma le  registrazioni sono aperte per coloro che sono interessati a partecipare in tutto il mondo. So che in Europa c’è stato molto interesse a Berlino, per esempio. Date un’occhiata a http://bit.ly/SpotifyAction e unitevi a noi se siete d’accordo con le nostre richieste!

Impatto Sonoro ha contattato Spotify per offrire all’azienda la possibilità di fornire la propria versione dei fatti, ma non abbiamo ricevuto nessuna risposta.

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